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Con questo numero monografico
intendiamo porre all’attenzione della sinistra che vorremmo un
tema decisivo per la sua stessa esistenza: quello del sindacato.
Sembra paradossale eppure è così, a tutt’oggi non c’è un dibattito
pubblico impegnato su un problema così centrale per la democrazia
moderna. Vorremmo contribuire a colmare il vuoto sollecitando
l’apertura di una discussione e di una ricerca. (…)
La nostra tesi è che siamo alla
coda della storia del movimento sindacale organizzato, almeno per
come l’abbiamo conosciuto in Italia. Siamo di fronte al rischio di
una sua fine o di una sopravvivenza delle sue organizzazioni in un
contesto che però ne modifica radicalmente il senso. Cioè siamo di
fronte a un processo che può condurre a un sindacato che non sia
più espressione del punto di vista e delle esigenze proprie dei
lavoratori. Nella specifica esperienza italiana, quella che ha
dato forma al sindacato confederale attraverso il contratto
nazionale e la contrattazione articolata, proprio questi rischiano
di scomparire, sopraffatti dal primato del mercato e dell’impresa.
Il sindacato diventerebbe, allora, parte della macchina votata
all’organizzazione del consenso all’interno delle imposizioni che
provengono dalla governance dell’impresa e da quella
tecnocratica. Una governance formalmente condivisa con lo
stesso sindacato ma in realtà egemonizzata da quello che chiamiamo
il pensiero unico, pensiero che esclude la possibilità di reali
alternative: la legge di Tina, «there is not alternative». (…)
Uno degli elementi forti della
ideologia dominante è stato infatti quello di indurre a
considerare il conflitto come un dato patologico, indice di una
cattiva politica e apportatore solo di cattive conseguenze. La
lettura dei dati italiani messa a confronto con l’andamento delle
conquiste dei lavoratori ci dice invece, con la forza
indiscutibile delle serie storiche, che i picchi conflittuali
hanno accompagnato le fasi di effettivo miglioramento nelle
condizioni di lavoro e di vita delle lavoratrici e dei lavoratori.
Le conquiste sociali si sono sostanziate, in quelle fasi, sia in
termini di condizioni materiali, di salario, di organizzazione del
lavoro, ma anche di diritti, di democrazia e di creazione di
Welfare. Su di esse si è formata una specifica e forte coscienza
di classe. I conflitti sociali hanno influito potentemente in
quelle che sono state le epoche di trasformazione decisive del
Paese, anche in relazione a dinamiche più complesse e globali. (…)
Ma questa
tesi è solo il frutto della gigantesca vittoria di una ideologia
su tutte le altre, l’ideologia del mercato. Questa epoca nostra è
certo quella di una trasformazione di portata gigantesca e
planetaria, è quella della globalizzazione economica, della
frammentazione del soggetto lavorativo, della centralizzazione
senza concentrazione, del dominio della finanza e delle
tecnostrutture. Ma tutti i passaggi di epoca hanno conosciuto
cambiamenti radicali delle condizioni oggettive e delle culture
egemoni anche tra i lavoratori. La contesa vede così cambiare i
termini stessi su cui essa si fonda. Ma il suo esito non è
obbligato. In questo caso si è verificato un rovesciamento della
lotta di classe, che ora è agita dall’impresa e dal mercato contro
i lavoratori, e in esso si è prodotta la loro vittoria ideologica.
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