alternative per il socialismo n. 9 aprile-maggio 2009
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Perché la discussione sul nascere, vivere e morire, vivacissima ovunque, in Italia si trasforma in uno “scontro tra assoluti”, sollecita le pulsioni verso uno Stato etico, produce norme e proposte fondamentaliste e autoritarie? Perché tutto questo accade malgrado che, nel 1989, la Corte costituzionale abbia chiaramente affermato che “il principio supremo della laicità dello Stato è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica”? Dietro queste domande vi è un male che rischia di corrodere la nostra democrazia. Si tratta di una malattia, come direbbero i genetisti, multifattoriale, dunque riconducibile a molte cause, ma che ha come esito una drammatica regressione culturale, nella quale si rispecchia la regressione politica che viviamo e che non si coglie soltanto nella materia della bioetica. Lo stesso spirito autoritario, infatti, informa l’intero corso politico, con una maggioranza che sta ridefinendo nel profondo il rapporto tra la persona e lo Stato. Vi è una radice dichiaratamente politica che deve essere subito messa in evidenza. Discutendo di laicità con Guido Bodrato, qualche tempo fa, ci siamo trovati concordi nel ritenere che uno schema analitico, utile per comprendere i mutamenti intervenuti nel sistema politico italiano, possa essere quello che mette in evidenza come, negli ultimi vent’anni, al rapporto a tre Chiesa-Stato-Democrazia cristiana se ne sia sostituito uno che vede come protagonisti Chiesa-Stato-Conferenza episcopale italiana. Si vuol dire che al posto di un soggetto politico, il partito dellaDc, per la sua stessa natura obbligato a mediazioni, troviamo un ben diverso soggetto politico, la Cei, che invece agisce in presa diretta sulle istituzioni pubbliche. A una lettura della società necessariamente articolata, che deve comunque tener conto di diversità, se ne sostituisce così una che tende a imporre alla società un unico punto di vista, che si esprime nella formula ben nota dei “valori non negoziabili”. Il rischio per la democrazia è evidente, perché la possibilità del confronto, il ricorso al principio di maggioranza sono negati in radice dal rifiuto pregiudiziale della negoziazione.
I valori di riferimento della Costituzione Conviene, allora, chiarire immediatamente una questione essenziale. In quello che viene rappresentato, e in concreto così si manifesta, come un conflitto tra diverse tavole di valori, una soltanto è quella democraticamente legittimata, la Costituzione della Repubblica, alla quale, di conseguenza, spetta una posizione privilegiata nella discussione pubblica e nel momento della decisione legislativa. La Costituzione, infatti, è il prodotto di un procedimento democratico, sconosciuto alle altre carte di valori che possono essere presenti in una organizzazione sociale: voto popolare, elezione di una Assemblea costituente, discussione, votazioni parziali, approvazione finale. Questo non significa che sia precluso il confronto continuo tra punti di vista diversi che, anzi, è il contenuto primo della laicità dello Stato. Vuol dire che un riferimento ineludibile è quello ai principi costituzionali, che costituiscono il criterio di valutazione finale della legittimità di una norma. E questi principi, lo ha sottolineato la Corte costituzionale nel 1988, non possono essere “sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali”. Se ciò accade, si determina un mutamento di regime: esattamente quel che avverrebbe se si determinasse una strisciante deriva verso lo Stato etico. L’antico nodo del sistema italiano, quello della rappresentanza politica dei cattolici, si è venuto in questi anni ancor più aggrovigliando. Caduto il riferimento comune alla Dc, che dava alla Chiesa un interlocutore che non poteva essere scavalcato, si è scatenata una concorrenza per assicurarsi non tanto il voto cattolico, ma la benevolenza della Chiesa. L’uso strumentale della religione si è fatto palese, travolgendo il senso dello Stato che aveva comunque accompagnato l’azione dei politici democristiani da Alcide De Gasperi a Aldo Moro, segnando così anche il destino dei “cattolici democratici”, la cui emarginazione ha suscitato anche il sorprendente compiacimento di qualche laico. Alla rappresentanza politica si è così sostituita quella confessionale,mettendo a nudo antiche e nuove debolezze nell’ambito della sinistra e tra gli stessi laici. Non mi riferisco alla lacrimevole deriva degli atei devoti e non risalgo ai tempi del voto del Pci a favore dell’articolo 7 della Costituzione, e agli effetti e alle polemiche che ne sono derivate. Segnalo piuttosto il mutare dei tempi, ricordando come il “disgelo costituzionale” degli anni Sessanta abbia avuto, tra i vari suoi esiti, anche quello di far scendere il tasso di eticità, dunque di autoritarismo, del nostro sistema grazie a importanti sentenze della Corte costituzionale e, soprattutto, grazie a riforme legislative di grande rilievo - divorzio, nuovo diritto di famiglia, aborto. Vi fu, intorno a questi temi, una lotta politica anche aspra, e il Vaticano intervenne in modo determinato, sia con documenti che mettevano in dubbio la stessa legittimità dell’intervento del legislatore italiano (come nel caso del divorzio), sia appoggiando esplicitamente i referendum abrogativi (divorzio e aborto). Ma questo non determinò chiusure politiche pregiudiziali, e di questo si avvantaggiò la discussione politica e parlamentare. Per la legge sul divorzio si trovò un punto di equilibrio attraverso l’approvazione della legge sul referendum, che avrebbe consentito l’appello ai cittadini su una disciplina controversa. Per la legge sull’interruzione della gravidanza, il punto di equilibrio fu trovato nella previsione dell’ammissibilità dell’aborto solo nelle strutture pubbliche e nella disciplina dell’obiezione di coscienza. In questo si rifletteva non solo un modo laico d’intendere la legislazione quando questa aveva a oggetto la vita delle persone, ma una capacità di “lettura” della società che contribuiva alla costruzione di uno spazio pubblico aperto, dove la prosecuzione della discussione non significava inasprimento di un conflitto sostanzialmente ideologico.
Un panorama italiano fortemente mutato Altri tempi, altra società, altra cultura - si potrebbe dire. L’attenzione, allora, deve essere rivolta appunto al mutamento del contesto. Gli anni Settanta segnarono una stagione di rinnovamento anche oltre le materie appena ricordate, poiché furono il tempo dello Statuto dei lavoratori e della legge sulla parità tra donne e uomini in materia di lavoro, dell’attuazione dell’ordinamento regionale e della legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare, della riforma sanitaria e della legge sulla chiusura de manicomi, della riforma carceraria e di una legislazione penale espansiva delle garanzie (almeno fino al 1974). Il motore di tutto ciò era una società dinamica, nella quale agivano le lotte operaie e la rivoluzione femminista, una diffusa cultura dei diritti che ampliava anche il panorama dei soggetti attivi per il loro riconoscimento e la loro tutela. L’ancoraggio forte era nella Costituzione, protagonisti rimanevano ancora partiti radicati nella società, della quale cercavano di interpretare e accompagnare il mutamento. Era in corso un processo di liberazione dal potere del mercato, dal potere medico, dalla prepotenza dello stesso potere politico. L’ampliarsi degli spazi di libertà e di democrazia assicurava senza forzature la crescente laicità dello Stato. Oggi contempliamo un panorama fortemente mutato, nel quale si stenta a ritrovare le componenti che segnarono quella stagione. Non si tratta di proporre una operazione nostalgia, ma di considerare con la necessaria freddezza l’indebolirsi sovente drammatico della cultura costituzionale, il passaggio da un sistema di partiti a un sistema di oligarchie, l’emergere di una società di massa più soggetta alle distorsioni determinate dal dominio del sistema della comunicazione. Tutto questo accade in un tempo in cui l’emergere prepotente della tecnoscienza esige la ridefinizione di criteri di riferimento, determina angosce sociali che producono domande alle quali è grande la tentazione di rispondere imboccando scorciatoie autoritarie, con norme fortemente limitative dei diritti delle persone, riduttive delle nuove possibilità di scelta e di governo libero della vita offerte proprio dall’innovazione scientifica e tecnologica. Non è un caso che la parola etica, quasi assente nella passata discussione, abbia oggi un ruolo centrale, addirittura prepotente. Non alla politica, ma all’etica, dovrebbe essere affidato il compito di guidare la società in questo passaggio d’epoca. A questo tornante la cultura di sinistra, molta parte delle sue componenti laiche, sono giunte impreparate e disorientate. È vero che, anche in quel passato qui ricordato con accenti fortemente positivi, si manifestarono esitazioni e debolezze significative, testimoniate ad esempio dalla posizione assunta dal Pci sul Concordato Craxi-Casaroli del 1984. Ma le motivazioni di quegli atteggiamenti, in più di un caso poi abbandonati, erano tutte politiche, non portavano con sé una accettazione di logiche sostanzialmente etiche.
Il disarmo della vecchia sinistra Quando si accetta, con la frettolosità e la superficialità che hanno caratterizzato troppe mosse della sinistra italiana, la tesi sbrigativa della fine delle ideologie, e a questa non si accompagna una vera riflessione critica sul passato e sugli strumenti con i quali affrontare presente e futuro, si entra nel nuovo mondo quasi a mani nude. Non si è stati capaci di rendersi conto dei guasti provocati dall’irrompere proprio di una ideologia, quella liberista, con la sua pretesa totalizzante (“la fine della storia”). Non si è stati capaci di rendersi conto che l’appello all’etica non riguardava “altro” dalla politica, ma era una ineludibile dimensione del nuovo modo d’essere della politica. E così il liberismo ha impregnato il mondo, fino ai drammatici esiti attuali. E la disattenzione per i problemi del governo della vita ha spianato il cammino, in Italia, alla pretesa di introdurre un’etica di Stato. La stessa questione della religiosità nel difficile mondo di oggi si è presto impigliata nella considerazione del tutto strumentale del modo in cui tenere i rapporti con le gerarchie vaticane e delle tattiche più utili per assicurarsi un voto e una rappresentanza politica dei cattolici non più affidati a un unico partito. Proprio il parlare di etica ha spinto una parte significativa della vecchia sinistra a una serie di incredibili confusioni, a cominciare da una sorta di resa al fatto che, essendo la Chiesa una “agenzia” sociale da sempre vocata appunto all’etica, con essa non era né possibile, né opportuno entrare in competizione. Questa disattenzione, o vera e propria rinuncia, ha determinato un grave ritardo culturale, divenuto manifesto con le incertezze e le vere e proprie divisioni che hanno accompagnato (e purtroppo ancora accompagnano) l’azione politica in materie come quelle della procreazione assistita, delle unioni di fatto, del diritto di morire con dignità, per citare solo le più importanti. Si è rimasti prigionieri di una linea confusa e accomodante, perdente anche sul terreno della competizione per il voto cattolico, dove la spregiudicatezza berlusconiana si rivelava sempre più vincente. E questo atteggiamento è andato di pari passo con la sottovalutazione della linea impressa fin dall’inizio alla politica della Cei dal suo presidente, il cardinale Camillo Ruini. Vani sono stati i tentativi di riguadagnare terreno con dichiarazioni individuali volte a dimostrare come la religiosità albergasse anche dalle parti della sinistra. Perdenti si sono dimostrate le forme di “dialogo” scelte dalle forze di centrosinistra e di sinistra, poiché si sono risolte negli incontri e nelle negoziazioni tra oligarchie, quella partitica e quella vaticana, con esiti politici del tutto negativi, a cominciare dal progressivo isolamento dei “cattolici democratici” e della perdita di attenzione per un mondo cattolico più ampio e ricco di quello rappresentato dalla gerarchia vaticana, attenzione che era stata una caratteristiche, anche se talvolta strumentale, della sinistra dei tempi passati. Deboli si sono rivelati i tentativi di elaborazioni autonome, contrassegnati troppo spesso dal timore d’essere accusati di laicismo. Cieca è stata così un’analisi che ha rifiutato di vedere il rischio per la stessa democrazia, evidente quando alle sue regole costitutive si è opposta la pretesa di affermare valori non negoziabili. In questo vuoto politico e culturale ha potuto insediarsi la volontà di dare all’azione pubblica connotati etici sempre più marcati, che è divenuta una linea portante dell’azione della destra, non a caso di nuovo riassunta nello slogan “Dio, Patria, Famiglia”.
L’elaborazione culturale come premessa Un piccolo sguardo fuori d’Italia aiuta a rendersi conto dell’importanza dell’elaborazione culturale come premessa indispensabile per una buona azione politica. Si è molto insistito, in questi anni, sulla politica fortemente innovativa del governo Zapatero in materia di diritti civili. È bene ricordare, tuttavia, che essa è stata resa possibile da una cultura che si era progressivamente sedimentata, che aveva ricevuto adeguata attenzione politica, che aveva così ottenuto consenso sociale. Già nel 1987 il Parlamento spagnolo approva una legge avanzatissima sulla procreazione assistita, ed è spagnolo il relatore della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla biomedicina del 1997. E nel Paese indicato come modello dai vari e approssimativi riformismi nostrani, la Gran Bretagna di Tony Blair, questa linea è ancor più marcata e consolidata. Gli esempi potrebbero continuare, ma i due appena ricordati mostrano un progressivo allontanarsi dell’Italia dal resto dell’Europa. In questa specificità, o piuttosto isolamento, può cogliersi una condizione esplicitamente sottolineata dalle gerarchie vaticane, che nell’Italia hanno indicato il paese dal quale partire per la riconquista di un mondo scristianizzato. Cambia così, qualitativamente, il rapporto tra la Città del Vaticano e la Repubblica italiana, alla quale si guarda ormai come al “giardino di casa”. Si può così spiegare l’intensità degli interventi vaticani, sovente ben diversi da quelli effettuati in altri Paesi, come dimostra la vicenda del testamento biologico, a proposito del quale le conferenze episcopali spagnola e tedesca hanno potuto assumere atteggiamenti assai più aperti. La progressiva “eticizzazione” della legislazione italiana si iscrive in questo disegno, confermato dal documento vaticano sulle fonti del diritto, dove si va oltre l’ovvia indicazione di un filtro per valutare quali norme italiane possano essere recepite dall’ordinamento della Chiesa, poiché si dichiara l’intenzione di sottoporre a un continuo “monitoraggio” l’intera legislazione del nostro Paese. Questa strategia vaticana ha fatto emergere tutte le debolezze e le distorsioni del sistema politico prima ricordate. Le reazioni vanno dalla compiaciuta accettazione del ruolo di braccio secolare della Chiesa, assegnata ai parlamentari in presenza di valori non negoziabili, alla rassegnata incapacità di agire per rendere possibile una presenza pubblica non subalterna. Una opposizione “rispettosa” ha lasciato a Gianfranco Fini la parola, e questi ha pronunciato ciò che a quell’opposizione sembrava impronunciabile, segno di inaccettabile “laicismo”, appunto l’espressione “Stato etico”. Non è poca cosa. Se la laicità è “principio supremo” dello Stato, quel che sta avvenendo assume i tratti di una modifica del sistema costituzionale. Non è certo un caso che, tra le molte cause che hanno portato a questa situazione, vi sia pure la svalutazione della Costituzione. Da anni la Costituzione è sotto attacco e, malgrado le ipocrite scappellate alla sua prima parte, quel che viene rifiutato è proprio l’insieme dei principi che la caratterizzano e che individuano lo spazio e le caratteristiche del nostro sistema democratico.
La Chiesa contro le dichiarazioni dei diritti La lotta, oggi, si svolge proprio intorno alla costruzione di questo spazio, che è questione propria della democrazia. Lo spazio democraticamente legittimo è quello che risulta dall’insieme dei principi costituzionali, che non può essere sostituito da altri principi e altre assiologie attraverso forme improprie di “revisione” costituzionale, come accade quando, ad esempio, agli articoli della Costituzione vengono contrapposti, quasi portatori di una superiore legalità, passi di encicliche papali o di altri documenti vaticani. Da tempo i vertici della Chiesa hanno intrapreso una campagna assai determinata per affermare il primato della loro dottrina ben al di là della legittima predicazione della fede, dal momento che a essa viene attribuito un valore normativo che va oltre l’ambito dei credenti e configura obbligazioni degli Stati e delle istituzioni internazionali. È avvenuto con alcune prese di posizione della Conferenza episcopale che esplicitamente rifiutavano principi fondamentali della Costituzione italiana. Benedetto XVI ha poi negato la legittimità stessa di norme internazionali a suo avviso espressive di “una concezione del diritto e della politica in cui il consenso tra gli Stati è ottenuto talvolta in funzione di interessi di corto respiro o manipolato da pressioni ideologiche”, con un attacco diretto all’Onu. Il Trattato di Amsterdam è stato giudicato “pericoloso” perché vieta le discriminazioni basate sulle tendenze sessuali. Questi attacchi frontali alle dichiarazioni dei diritti ci confermano, una volta di più, che democrazia e laicità sono tutt’uno, e ci consentono di indicare le tappe più significative della deriva etica che si sta imprimendo alle istituzioni. Basta ricordare la legge sulla procreazione assistita, il rifiuto di dare riconoscimento giuridico alle unioni di fatto, l’indegna gazzarra intorno al caso drammatico di Eluana Englaro, la discussione parlamentare della legge sul testamento biologico. Tutte queste vicende sono accomunate dal rifiuto di riconoscere alle persone il diritto di governare liberamente la propria vita, revocando in dubbio quella “costituzionalizzazione della persona” che, attraverso la rivoluzione del consenso informato e l’intreccio tra libertà e dignità, ha segnato il progressivo incivilimento dei decenni passati. Non è a una mancanza di valori che si vuole reagire, dando riferimenti forti per sfuggire al peccato di relativismo. Si vuole rifiutare il forte sistema di principi che caratterizza lo Stato costituzionale di diritto e, con esso, la regola della democrazia, che impone parità delle armi nella discussione pubblica. Si revoca in dubbio il moderno habeas corpus, quel “non metteremo la mano su di te” così bene espresso dalle parole conclusive dell’articolo 32 della Costituzione: “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. La persona è così riconsegnata ai poteri dai quali si era voluto liberarla – quello medico e quello politico. La deriva etica incontra, e non poteva essere diversamente, quella autoritaria.
I principi dello Stato di diritto Poteri insofferenti d’ogni controllo vogliono impadronirsi della vita, e governarla. Ieri questo è stato visibilissimo intorno alla vicenda di Eluana Englaro, con il rifiuto da parte di governo e maggioranza di una legittima decisione della Corte di Cassazione, con l’uso arbitrario di strumenti amministrativi, con la pretesa di cancellare per legge una sentenza passata in giudicato, negando la stessa distinzione tra i poteri dello Stato. Oggi, dopo la sentenza della Corte costituzionale sulla legge sulla procreazione assistita, si rifiuta lo stesso controllo di costituzionalità delle leggi e, con dichiarazioni inquietanti, si annuncia l’abbandono della stessa fedeltà alla Costituzione, qualora le sue norme non vengano interpretate secondo una presunta volontà dei costituenti cattolici. La deriva etica esige l’abbandono dei principi fondativi dello stesso Stato costituzionale di diritto. Si può continuare a giustificare la debolezza politica dell’opposizione con l’argomento che, tanto mutati i tempi, la laicità e i suoi principi non allignano più nella società italiana? Si sta cercando di far nascere una “costituzione parallela”, fondata su valori non negoziabili imposti unilateralmente e fuori da ogni procedura democratica; sull’affermazione dogmatica dell’indisponibilità della vita, che contrasta con il diritto fondamentale all’autodeterminazione, esplicitamente riconosciuto dalla Corte costituzionale con la recentissima sentenza n. 438 del 23 dicembre 2008; sul primato dello Stato e della “comunità”, ai quali la persona finirebbe con l’appartenere. Grazie a questo intreccio, costruito con tenacia, lo Stato etico sta facendo le sue prove nella società italiana. Questi preoccupanti dati di realtà non sono stati finora oggetto di una attenzione e di una analisi politica adeguata. Ma si possono continuare a giustificare la disattenzione e la debolezza politica dell’opposizione con l’argomento che, tanto mutati i tempi, la laicità e i suoi principi non allignano più nella società italiana? Teniamoci pure lontani dall’abbandono a un’altra deriva, quella sondaggistica, che rafforza ovunque le pulsioni populiste. Ma non possiamo ignorare le molte rilevazioni che, proprio nelle scottanti materie del morire con dignità e della procreazione assistita, parlano di una grandissima maggioranza che ritiene diritto della persona quello di decidere liberamente sul nascere e sul morire. Chi rappresenta questi cittadini? Ai pavidi esponenti dell’opposizione, che giustificano le loro debolezze con il timore di fughe del voto cattolico, non dice nulla l’eloquenza di altre rilevazioni che mostrano una fuga dal Partito democratico di chi non accetta la caduta non di una astratta laicità, ma di una concreta e convinta adesione ai principi di libertà? Una risposta a questi interrogativi ineludibili può forse essere cercata anche nel ruolo giocato in questi mesi proprio da una cultura laica esplicita e determinata che, respinta con sufficienza come minoritaria, ha interpretato i dati di realtà con lungimiranza politica ed efficacia sociale ben maggiore di quella degli impotenti realisti politici.
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