alternative per il socialismo n. 7 ottobre-dicembre 2008
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La ragione per la quale molti costituzionalisti democratici sono spesso accusati di “conservatorismo” - bene che vada “nobile conservatorismo” - rispetto alle molteplici richieste di modifiche istituzionali può essere fatta risalire alla consapevolezza che essi hanno della posta in gioco. La lunga stagione politica che sta alle nostre spalle, caratterizzata da innumerevoli e disinvolte iniziative finalizzate a trasformare nel profondo l’assetto complessivo della nostra Repubblica, ha posto spesso i costituzionalisti dinnanzi alla drammatica alternativa fra abbandonare il rigore della propria disciplina per seguire il “nuovo” che impetuosamente avanza, o farsi paladini delle ragioni del costituzionalismo democratico. Alcuni - non tutti - hanno scelto questa seconda via. Il referendum costituzionale del 25 e 26 giugno del 2006, che ha respinto “l’assalto alla costituzione” che la maggioranza di centro-destra aveva mosso con furore iconoclasta, sembrava alla fine aver dato ragione alle preoccupazioni espresse nei confronti delle spregiudicate politiche di riforma costituzionale delle maggiori forze politiche del Paese. Quel referendum avrebbe dovuto definitivamente chiudere la stagione “costituente”. Ciò non è accaduto: un po’ per improntitudine, un po’ perché un ceto politico in crisi di rappresentanza tende naturalmente a sostituire la propria erosa legittimazione sociale con una legittimazione puramente istituzionale che le permetta in ogni caso di governare. Ecco allora che anche questa legislatura si vuole “costituente”. Ai costituzionalisti, anche questa volta, credo sia affidato il compito di sostenere le ragioni della democrazia pluralista in un ambiente politico poco preoccupato di alzare lo sguardo oltre la mitica “governabilità purchessia”. Rispetto al recente passato alcuni fatti devono essere presi in considerazione. Anzitutto, le mutate condizioni politiche seguite alle ultime elezioni. La fragilità della passata maggioranza di centro-sinistra - che ha reso impossibile sia il “governare” sia il “rappresentare” e dunque non poteva che concludersi in modo convulso e con costi elevati per i protagonisti di quella infelice esperienza politica - rappresentava però un vantaggio, apparentemente paradossale, per coloro che volevano impegnarsi a riformare il sistema istituzionale. Essendo massima l’incertezza politica si operava in una situazione assimilabile a quella che molti costituzionalisti ritengono essenziale per una “giusta” e “stabile” riforma delle regole del gioco: il “velo di ignoranza” che impedisce ai competitori politici di pensare alle riforme esclusivamente in base alle proprie convenienze particolari. “Apparente paradosso” (debolezza politica vs forza di progettazione costituzionale) che pure ha permesso all’inconcludente passata legislatura di produrre apprezzati progetti di riforma costituzionale ed elettorale (rispettivamente le c.d. bozze Violante e Bianco). Con le ultime elezioni, non solo è caduto il “velo di ignoranza”, ma è cambiato l’intero sistema politico. Siamo all’alba forse di un nuovo “regime politico”, certamente di nuove forme della democrazia. Quale regime e quali forme in concreto si andranno affermando è presto per dire, ma sin d’ora appare indiscutibile un “fatto”: la semplificazione bipolare (a vocazione bipartitica) del sistema della rappresentanza politica, con la conseguente scomparsa delle tradizioni storiche e culturali egemoni nel “secolo breve”. È un bene? Dal punto di vista della mitica “governabilità purchessia” può essere, dal punto di vista di un fautore della democrazia pluralista appare invece evidente l’impoverimento politico e sociale che tale svolta di sistema impone. Da quest’ultimo punto di vista (che è quello specifico disegnato dal costituzionalismo del secondo dopoguerra in Europa occidentale), oggi il problema principale diventa garantire la ricchezza delle diverse espressioni di pensiero, anche di quelle che non trovano più una rappresentanza politica e istituzionale.
La forma di governo e la deriva neo-autoritaria Entro questo quadro dunque si apre il “dialogo” sulle riforme. Due appaiono gli obiettivi principali: modificare l’assetto dei poteri stabilito in costituzione e riformare il sistema elettorale. I due temi sono strettamente collegati, definendo entrambi lo spazio istituzionale entro cui vive ovvero degenera il complessivo sistema democratico. In materia di forma di governo, in particolare, sembra che la principale esigenza espressa, tanto dall’attuale maggioranza quanto dall’attuale opposizione, sia quella di rafforzare il governo. Un obiettivo condivisibile? Se si trattasse della razionalizzazione della nostra forma di governo parlamentare in base al “modello tedesco”, tante volte discusso (misure volte cioè a favorire la realizzazione dell’indirizzo politico della maggioranza imprimendo una rafforzata omogeneità alla compagine governativa, ma pur sempre nell’ambito di una forma di solida centralità parlamentare, con maggiori poteri di garanzia e controllo delle opposizioni), non si potrebbe che - per l’ennesima volta - riaffermarne l’utilità e avvertire che con il governo si deve anche pensare a rafforzare l’altro organo titolare dell’indirizzo politico: il Parlamento. Aspetto quest’ultimo che viene costantemente dimenticato. Ma non è questo il contesto entro cui si muovono i soggetti protagonisti dell’attuale fase politica. Almeno se, prescindendo delle convulsioni interne ai partiti, si vuole stare ai fatti, avvalorati dalle più recenti prese di posizione dei diretti responsabili delle forze politiche organizzate. Da un lato, infatti, l’obiettivo del centro-destra (neppure più mitigato dall’alleanza con il centro di Casini) è stato definito con precisione della riforma costituzionale approvata da Berlusconi, pur respinta dalla maggioranza del corpo elettorale, mai però rinnegata dai suoi fautori che oggi hanno l’occasione per un ritorno al passato. Si tratta del minaccioso “premierato assoluto”, forma di governo “unica al mondo” (così Leopoldo Elia), modello costituzionale ritagliato in base alla convinzione che al solo governo e a chi lo presiede, liberato da controlli sociali e da ogni contrappeso istituzionale, spetta l’onere di definire la politica nazionale. Una filosofia che è un’espressione tipica dell’epoca in cui viviamo (il tempo del caimano), ma che si contrappone al principio fondamentale della divisione della sovranità che la modernità ha imposto e il costituzionalismo ha teso a realizzare. Un obiettivo di riforma costituzionale “incostituzionale”. Neppure dall’altro lato dello schieramento politico i precedenti e i fatti più prossimi appaiono rassicurare. Le affermazioni “strategiche” a favore del modello semipresidenziale francese, proposte con grande enfasi durante l’ultima campagna elettorale dall’attuale maggior partito di opposizione, lasciano inquieti. Il sistema istituzionale della Quinta Repubblica si caratterizza infatti per un’eccessiva concentrazione dei poteri in capo al presidente della Repubblica (vero “monarca repubblicano”) e per una sostanziale irrilevanza politica dell’organo parlamentare. Un presidente governante che può trovare un limite solo nel caso – eccezionale – di formazione di una diversa maggioranza politica che lo obblighi a dar vita ad un governo di “coabitazione”. Forse un sistema politico congegnale alla visione bipolare a vocazione maggioritaria sostenuta dalla maggior parte dell’attuale gruppo dirigente del partito democratico, ciò nondimeno dannoso per le ragioni essenziali della democrazia pluralista.
La torsione maggioritaria e il declino della pluralità Per quanto riguarda invece la discussione sui sistemi elettorali, sembra che essa si svolga su due piani paralleli, tra loro non comunicanti: da un lato le logiche proprie della rappresentanza politica, dall’altro quelle della stabilità dei governi. Se il primo è l’orizzonte “classico” del costituzionalismo, il secondo appare la versione postmoderna della schmittiana neutralizzazione della politica. Anche in questo caso la torsione bipartitica del semplificato ed impoverito sistema politico rischia di far degenerare un equilibrio già da tempo instabile. Dopo la “svolta maggioritaria” impressa al sistema a seguito del plebiscito del 1993 realizzato con il primo referendum in materia elettorale (incautamente ammesso da una criticata decisione della Corte costituzionale) si è diffusa in Italia un’ossessione e si è perduta una capacità. Per dirla in sintesi: l’ossessione della governabilità ha fatto venir meno la capacità di rappresentare. In fondo è sufficiente considerare le tante leggi elettorali, diverse per ogni livello di governo, ritagliate su misura per questa o quella competizione elettorale. Tra loro eterogenee, ma ciascuna a suo modo sembra aver concorso a produrre la più acuta crisi di rappresentanza dal dopoguerra in poi. Come spiegare altrimenti se non con la perdita di ogni principio di sistema l’esistenza di ben sette diverse modalità di voto (ma in realtà un numero superiore se si considerano le normative specifiche delle Regioni a statuto speciale) per eleggere i componenti la complessa rete di organi elettivi: Parlamento europeo, Camera, Senato, Regioni, Province e Comuni con più di 15.000 abitanti, Comuni sino a 15.000 abitanti? Come spiegare altrimenti se non con la volontà di “usare” la legislazione elettorale a secondo dei risultati di volta in volta auspicati, la strana vicenda che a visto predisporre da parte del centrodestra, in previsione di una sconfitta elettorale, un sistema per l’elezione dei rappresentanti di Camera e Senato (quello dalla legge 270 del 2005) in cui si consegna l’esito elettorale ad una probabile (nel 2006 effettivamente verificata) differenziazione nella composizione politica tra le due Camere? Un esito determinato non in base ad un’apprezzabile differenza di consenso tra i due rami del Parlamento, bensì artatamente ricercato mediante un’eccessiva distorsione dei premi e da un’irrazionalità nella assegnazione su base regionale degli stessi, in uno solo dei due rami del parlamento. E come spiegare, infine, l’uso fatto della stessa legge elettorale per la selezione/cancellazione di tante forze politiche minori che è stato consumato nell’ultima tornata elettorale, anche grazie a un sistema di premi e di soglie di sbarramento altalenanti, che hanno favorito alcune forze “amiche” ai due maggiori partiti (come è stato per l’Idv, ma anche - sebbene all’interno delle liste maggiori - per i radicali e per l’Mpa), penalizzando invece tutti gli altri? Qualcuno esulta affermando che s’è finalmente raggiunta la semplificazione del quadro politico e la stabilità del governo. Forse è vero, ma a scapito della capacità di rappresentare il pluralismo sociale (non dunque, come si potrebbe ritenere, la mera rappresentazione delle forme partito, ormai larve di se stesse, indifendibili in sé perché tutte in crisi di legittimazione sociale e sostanzialmente autoreferenziali). È vero allora che si è operata una semplificazione, ma non tanto del “quadro politico”, quanto della complessa realtà della nostra democrazia, impoverendola.
La stabilità della maggioranza come unico obiettivo S’è raggiunta una stabilità di governo, ma al prezzo di un’ulteriore presa di distanza di questo dalle contraddizioni sociali, privando dunque l’esecutivo di un’effettiva capacità di governare i conflitti mediando tra interessi reali; sottraendo al complessivo sistema politico la capacità di rappresentare. Un trend di autonomizzazione dalle logiche complesse e non eccessivamente semplificabili della rappresentanza delle nostre società pluraliste e plurali, frammentate e divise, che sembra prevalere anche all’inizio di questa legislatura che pure ha ormai ridotta all’osso la rappresentanza politica. La discussione che si va sviluppando sulla legge elettorale europea appare solo un’anticipazione di quella che dovrà seguire in tempi ravvicinati - visto l’incombere della scadenza referendaria - relativa alla legge per l’elezione del Parlamento nazionale. Sin d’ora però appare dichiarata la filosofia che ispira i maggiori competitori politici: proseguire sulla strada della semplificazione e della stabilità assicurata al governo. Fino a che non rimarrà nulla da semplificare o da stabilizzare, poiché tutto sarà uguale a se stesso; con buona pace del valore e dell’essenza della democrazia: il governo dei molti e dei diversi. Il maggiore ostacolo che si frappone al “dialogo” sulle riforme della forma di governo e del sistema elettorale appare, dunque, quello dell’assenza di un concreto e realizzabile orizzonte cui possa collegarsi una visione condivisibile di sviluppo del nostro ordinamento di democrazia costituzionale. Le prospettive “politiche” prevalenti che si contendono il campo paiono volere semplicemente consolidare i processi politici in corso, ciascuna di esse definita in ragione degli interessi di uno dei due schieramenti maggiori. Nessuno dei protagonisti sembra invece interrogarsi seriamente su ciò che è realmente essenziale quando si vogliono cambiare i principi definiti nella costituzione ovvero le regole elettorali che si pongono alla base della rappresentanza politica. Nessuno sembra porsi la domanda fondamentale: qual è l’idea di democrazia che si pone alla base e giustifica la revisione dei rapporti che reggono una comunità politica. Un interrogativo che imporrebbe di sbilanciarsi sul futuro, non solo su quello immediato, non solo sui rapporti tra l’attuale maggioranza e l’attuale opposizione, non unicamente in vista di un prossimo - peraltro forse solo illusorio - successo elettorale. Si tratterebbe di chiarire se la strada della semplificazione del sistema, della progressiva riduzione della complessità sociale, della progressiva anestetizzazione del conflitto sociale, sia congeniale o meno con i valori del pluralismo che una matura democrazia ha sino ad ora preteso. Una prospettiva plurale della società multiculturale, che i processi di mondializzazione sembrano dovere accentuare nei prossimi anni. Politiche miopi hanno teso invece a non considerare il problema della incomprimibile diversità del pluralismo, illudendosi di poter governare senza rappresentare; inanellando in tal modo un fallimento dopo l’altro e ritrovandosi sempre al punto di partenza, con problemi irrisolti di governabilità delle società che ostinatamente si dimostrano irriducibili alla semplificazione. Prendere coscienze che la governabilità nelle democrazie pluraliste contemporanee può coniugarsi solo con la complessità delle moderne società, senza dovere sacrificare la multiforme articolazione politica e diversità culturale, costituirebbe il vero presupposto di ogni discussione di riforma della nostra forma di governo e del sistema elettorale.
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