Rossana Rossanda - Europa e modi di produzione. Alcuni interrogativi per la sinistra da rifare

alternative per il socialismo n. 6 luglio-settembre 2008

 

 


 

 

Il saggio di Fausto Bertinotti offre un’interessante lettura dello stato di coscienza (o di incoscienza) della nostra società. Ma sul perché della perdita di fiducia nella sinistra fino alla sua scomparsa dalla scena istituzionale, sarei meno autoflagellatrice. Quale che siano gli errori di Rifondazione, il perché della sconfitta non sta solo né specialmente negli ultimi anni.

È vero che il Congresso di Venezia del 2005 ha nutrito un ottimismo indebito sulla “permeabilità” del centro-sinistra alla spinta di Rc e dei movimenti, ma le scelte precedenti di Rc, apparentemente più rigorose, non ne avevano prodotto la crescita. La partecipazione al governo era un rischio, ma se Rc si fosse limitata a un rapporto esterno, i dilemmi sarebbero stati gli stessi (voto questa legge o faccio cadere il governo?) e se avesse rifiutato in partenza di appoggiarlo, ne avrebbe reso impossibile la formazione attirandosi i fulmini di gran parte dell’opinione che ora la condanna. Dopo il “basta!” del 1998, Rc non crebbe affatto.

 

Rifondazione con le spalle al muro

La verità è che nel 2006 Rc si è trovata con le spalle al muro perché necessaria alla formazione del governo e troppo debole per condizionarlo. Forse le domande di oggi sarebbe stato opportuno, come scrive Bertinotti, farsele allora. Non vedo però fra di esse il dilemma se una sinistra debba essere o no “di lotta e di governo”. Al di sotto di una certa forza, nelle Camere non si è mai di governo ma neanche di lotta; si è al più un polo di testimonianza. Sono tempi di accelerazione che scompaginano di continuo lo scenario, e chi non offre una prospettiva abbastanza sicura non viene votato alle elezioni, ma non viene percepito come ineludibile neanche fuori di esse.

La domanda è più pesante: una sinistra portatrice di un rivoluzionamento che investa il sistema di proprietà e di produzione ha ancora senso? O come diceva Fugujama questa storia è finita? Rifondazione è venuta dal Pci quando esso si è schierato dalla parte di Fugujama. Il suo messaggio era stato: “Rafforziamoci per batterci meglio oggi e domani saremo vincenti, perché la storia è dalla nostra parte”. Su questo è cresciuto, ha retto la guerra fredda, e ha conquistato voti fino agli anni Ottanta. Il suo impianto era forte, raccoglieva oltre 1 milione di uomini e donne, aveva un’egemonia effettiva nella trasformazione postbellica delle idee. Ma identificava la “storia che andava avanti” nell’essere diventata l’Urss la seconda potenza mondiale, nell’esistenza di un vasto campo di Stati socialisti in Europa, nelle rivoluzioni vittoriose in Cina e nel Vietnam. Insomma, nel fatto che il “socialismo” stava diventando una forma di Stato in varie parti del mondo, in un’ottica cioè che oggi si direbbe geopolitica. E pareva incancellabile.

Era un errore teorico e politico, anch’esso in gran parte obbligato dalla rivoluzione in un Paese solo, che illustri partiti comunisti che non erano al governo a dare priorità alle scelte dell’Urss più che alle proprie lotte è lo stesso dove i comunisti erano al governo piuttosto che ai problemi della costruzione del socialismo. Era inevitabile che fosse così anche in Italia? No, almeno da un certo punto in poi. L’aveva capito Togliatti negli ultimi anni, lo scriveva nel famoso Memoriale di Yalta per un incontro con Krusciov che non ebbe luogo, a fine agosto del 1964. In esso quell’uomo prudentissimo diceva come lo stato del campo socialista fosse tutt’altro che buono e si opponeva a una conferenza mondiale pretesa dall’Urss, mettendo in atto per la prima volta quel rifiuto dello Stato-guida annunciato ma non praticato nel 1956. Soltanto una preoccupazione assai forte e la certezza che senza una discontinuità con la linea del Pcus si sarebbe andati alla rovina lo deve avere spinto a questo gesto. Il gruppo dirigente che gli successe non seguì l’indicazione: Togliatti proponeva di aprire il dossier dell’Est e degli indirizzi del movimento comunista dall’interno del campo, mentre Berlinguer fece il contrario, chiuse quel dossier e aprì alla Nato.

Quando qualche anno dopo cadeva il muro di Berlino e cominciava lo sfascio dell’Unione sovietica, il Pci si è trovato di fronte alla rovina di quel “socialismo reale” con il quale non aveva fatto i conti. E in una fase di avanzata debolezza. Negli anni Sessanta, gli Usa avevano oscillato su una nuova frontiera, si discuteva di distensione, la Chiesa andava al Vaticano II, la Cina aveva vinto, gli imperi coloniali finivano, la ripresa economica si accompagnava a una stagione di lotta - gli equilibri del mondo per un momento parvero scossi. In più il Pci era il più grande partito comunista d’occidente e nel 1973 aveva avuto una grande avanzata elettorale. Perché non cogliere quel momento e poi il senso del 1968, continuando invece ciecamente fino allo sconquasso del 1989? Perché si temeva un dilagare in Europa del fascismo, che non fu mai così lontano? Berlinguer s’ingannò sulla tendenza sia all’Ovest che all’Est; la sua famosa frase sulla “fine della spinta propulsiva” veniva tardi ed era ben poca cosa rispetto al declino galoppante dell’Urss. Troppo tardi soprattutto per un corpo di militanti abituato a tener fermo che il socialismo era quello o niente.

 

Tra continuismo e diversità

Se insisto sulla vicenda del Pci è perché in Italia più che altrove esso fu determinante nell’idea di sé delle sinistre dopo il 1945. E perché quelle che cercarono di farsi strada dopo la “svolta” vengono da là. Non dal 1968, neppure dalla Cgil dei consigli. Rifondazione, per una serie di ragioni la principale della quale fu l’incertezza degli “ingraiani”, nacque con Cossutta nel segno della continuità con una Urss che cessava di esistere; una parte di essa, oggi Pdci, propone quella continuità ancora. Si era forse già fuori tempo massimo ma nessuno tentò di ancorarsi nella sola continuità, più che difendibile e rivendicabile, che era quella dell’affatto singolare lotta di classe dei comunisti in Italia. Così negli anni Settanta quello che era stato l’ascendente e il bacino del Pci si andarono erodendo anche se per un decennio l’erosione non fu elettoralmente visibile, anzi.

Il Pci in realtà non reggeva né al mutare di orientamenti su scala mondiale avvenuta con la Thatcher prima e Reagan poi né tantomeno al crollo dell’Est e alla mutazione della Cina; in rapida cascata, meno di venti anni dopo questi eventi hanno seccamente posto la domanda se una sinistra classista, quale che sia la complessità assunta nella società, possa ormai esistere. Rifondazione diceva di sì. Non poté essere che minoritaria. E non è da un’opposizione minoritaria che si potevano affrontare i nodi venuti al pettine. Ma si poteva ricostruire una forza comunista senza tentare di darvi una spiegazione? Comunista o socialista o persino socialdemocratica o “del lavoro”, definizione comune quanto reticente?

Il ritorno trionfante del liberismo, che era già morto attorno al 1920, non viene dal nulla. A guardarla spassionatamente, la vicenda di Rifondazione è tutta un dibattersi: dopo il continuismo di Cossutta tenta di appoggiarsi alla figura di Berlinguer per il suo profilo morale e la sua “diversità” di comunista; poi coltiva un antagonismo che sottintende il problema più che esplicitarlo, poi tenta un percorso di raccolta della sinistra critica anche assieme alla Rivista del manifesto; poi affida ai movimenti il protagonismo derivandovi un cambiamento di fase mentre questi, pur nel periodo crescente, urtano sugli stessi scogli. E all’urto segue sovente il tentativo di dare a questo o quel conflitto, sempre reale e colto con acutezza, una valenza non solo in sé, ma sostitutiva del famoso nodo irrisolto, quello del capitale e del modo di produzione.

Così è stato assunto da non pochi l’ecologismo, l’ambientalismo. Così persino da parte di diverse donne il femminismo. Mi pare di scorgere questa stessa suggestione nella mozione di Nichi Vendola dove - come nel documento del Centro di studi per la riforma dello Stato - la mondializzazione dei capitali è incrociata soltanto come questione del lavoro, cioè una anche se rilevante questione tra le altre. Mentre Paolo Ferrero fa l’operazione opposta e nell’insistere che una ricostruzione della sinistra deve avvenire dal basso se no è politicista elude anch’egli che siamo in un mondo globalizzato e che è questo a produrre un mutamento di civiltà, non solo nel modo di produzione ma nei suoi connessi dispositivi giuridico-politici, nazionali e internazionali. Di più: in una convulsa crescita dei conflitti all’interno dei quali si dibattono vecchie e nuove soggettività. Non tutte positive come l’insicurezza che oggi dilaga come sottoforma dell’antipolitica.

 

L’elaborazione di un lutto non affrontato

Una sinistra non si rifà, a mio avviso, senza il bilancio del passato, senza l’elaborazione di un lutto non affrontato; bilancio del tutto distruttivo soltanto se viene lasciato in mano agli altri perché in verità è stata una storia grande e terribile. Ma non si fa neanche se non si enuncia quale è il proprio obiettivo oggi. È lo stesso di ieri (una rivoluzione del modo di produrre attraverso l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione) in condizioni mutate (quanto mutate?), oppure non è questo? Se oggi quest’obiettivo pare improponibile nel breve e medio termine, quale altro obiettivo ci si dà? Un’inversione della rotta di liberalizzazioni in atto, una ripresa del keynesismo, in quali forme macroeconomiche, in mano dello Stato (quale Stato?), la ripresa da parte della politica di alcune leve di controllo del movimento dei capitali, di alcune regolamentazioni, di alcuni indirizzi dell’economia, di imprescindibili diritti civili e sociali? Assieme all’idea comunista, malandata che fosse, il liberismo ha cancellato anche questo secondo, e più modesto, modello sociale.

La domanda non è provocatoria. Dopo lo sfascio dell’Urss e il ribaltamento della Cina - ambedue a impressionante conferma che nulla resta del tentativo socialista - c’è da chiedersi quale consistenza esso abbia avuto o dove sia cominciato l’errore, e perché a metà degli anni Settanta è ripartita l’offensiva liberista presto fragorosamente vincente. Ma se si risponde che sì, che un rovesciamento del modo di produzione è il solo che garantisca libertà e uguaglianza rispetto a un sistema di mercato oggi più che mai iniquo, come riproporre un percorso opposto alla tendenza dominante?

Se non si può proporre un obiettivo del genere senza fare i conti con il Novecento, tanto meno si può eludere la domanda di quali siano oggi le figure sociali, o forze reggenti, forse i Paesi, che nel modello attuale stanno stretti, e, nel globale aumento della ricchezza soffrono di disuguaglianze maggiori di un tempo e sono vitalmente interessati a un cambiamento. Io non vedo moltitudini in atto di liberarsi dentro questo sistema. Vedo un infreddolito ripiegarsi su di sé. Insomma, per dirla in termini gramsciani, quale sarebbe oggi il blocco storico delle figure messo al lavoro dal capitale, dentro e fuori il modello produttivo, che lo sperimentano e lo considerano invivibile? Quali sono i rapporti di forza su di esse e la spinta al liberismo, alla mercificazione totale, al consumo come sola libertà di sopravvivenza.

 

Il problema eluso dalle sinistre

La maggior parte delle “sinistre” ha tolto il problema di mezzo: non si danno più come obiettivo una mutazione del sistema né una sua più modesta correzione. Il Pd, coerentemente, ha eliminato dal suo nome anche la parola “sinistra”. Lo ha tolto di mezzo il Labour, lo toglierà probabilmente il Ps francese, sembra averlo obliterato quello spagnolo, l’ha fatto da un pezzo la Spd, che per la prima volta si trova davanti una tendenza opposta nella Linke (per ora soprattutto sindacal-rivendicativa). Hanno cambiato il fine, o hanno scantonato. La sfera politica ruota tutta attorno all’alternativa destra-centro. Intendendo per centro una certa difesa della democrazia e dei diritti civili e un sempre più limitato intervento sul mercato. Le ultime elezioni non ci dicono che è così anche in Italia?

Torniamo dunque a casa nostra. Quel che non potevamo ignorare sostenendo il governo Prodi, e non potevano ignorare neanche gli elettori - nessuno è del tutto ignaro se non ci si mette - era che il compromesso antiberlusconiano si faceva “contro”, e attorno a un leader onesto come Prodi ma irriducibile propugnatore dell’Europa come mercato unico competitivo. Bertinotti scrive che nel programma dell’Unione c’era quasi tutto quel che la sinistra aveva chiesto. È vero. Ma molto di questo non andava affatto insieme alla priorità del risanamento di bilancio che Prodi non nascondeva. Non sarebbe potuto andare neanche se la crescita fosse stata un poco più alta e non era prevedibile che lo fosse. Sta di fatto che neanche l’aumento delle entrate fiscali perseguito da Visco poté dare luogo a una piccola redistribuzione. Come noi tutti, il Prc aveva puntato sulla possibilità che il governo cedesse alla domanda delle masse che lo avevano votato e pativano di una crescente sottrazione dei salari e delle prestazioni sociali. Ma sbagliammo. Nei tempi e nei parametri di Maastricht e in aggiunta la crisi dei subprime e del petrolio, l’Italia non poteva che ridurre lo Stato sociale e tener fermi i già bassi livelli normativi e salariali.

Non so se di questo sia stato discusso nell’Unione con chiarezza: probabilmente l’incombenza di Berlusconi lo impedì. Lo stesso va detto se l’obiettivo restava anzitutto la competitività: lo Stato sociale e le difese del lavoro che nei nostri Paesi sono più forti che altrove sono destinati a crollare in una libera competizione con i mercati indiano o cinese o anche un poco più in qua come quelli dell’ex Europa dell’Est. Sono diventate una variabile dipendente dalla crescita anche scuola e sanità. Il processo che si è fatto alla fine degli anni Settanta al welfare sul profilo dell’universalismo si è rovesciato in un processo a tutto il welfare. (Non abbiamo sentito predicare anche nella sinistra radicale “Meno stato più mercato? Niente welfare e assegno sociale di cittadinanza a tutti”? Come minimo, non c’era un’idea molto chiara dei rapporti di forza materiali e della loro evoluzione in atto).

Per dirla in breve, una sinistra doveva fare i conti con l’Europa come settore specifico della globalizzazione dei mercati, invece la nostra opposizione alle scelte dell’Unione europea, della Banca centrale e adesso all’ultima edizione del Trattato è stata ed è di una modestia impressionante. E dove c’è stato un “no” nei referendum, si è conclusa con una reazione protezionista limata dalla destra. Come osserva Wallarstein, l’onnipotenza dell’ondata liberista è sempre più messa in causa da quella parte. Da noi vi occhieggia Tremonti.

Anche qui l’errore ha radici lontane. Parlo per me: non si trattava di resistere all’unificazione europea perché certe costituzioni nazionali erano più avanzate di prevedibili compromessi istituzionali che l’avrebbe conclusa, ma di incalzare l’Unione almeno al “modello renano”, per dirla un po’ sommariamente, invece che limitarsi all’euro, al monetarismo puramente antinflazionista che ne deriva, alle liberalizzazioni, alla concorrenza; ma si trattava di premere per una linea di politica economica di intervento pubblico di regolamentazione, di difesa dei diritti politici e sociali. Ne sarebbe uscito qualche cosa di più che un mercato unico e traballante, e quindi autoritario. Così era stato nelle speranze, anche se vaghe, dei padri. Così soprattutto stava nella tradizione specifica del nostro continente fra l’Ottocento e il Novecento.

 

La dimensione europea del conflitto

Ma come si poteva esercitare questa pressione se non siamo stati capaci, e neppure ci siamo impegnati a collegare i lavoratori europei, neanche quelli di uno stesso settore, neanche quelli sotto uno stesso padrone, a difesa della loro lotte salariali e normative? Contro le delocalizzazioni? Vilvoorde è stata il primo e l’ultimo segno della nostra inerzia. La sinistra radicale è la sola che continua (malamente) a vivere nell’ambito di uno Stato nazionale, quando non in un localismo, assediato e sfondato da tutte le parti. Mai la circolazione delle persone è stata così elevata, i mezzi di comunicare così agevoli e immediati. Come avviene che la Francia abbia discusso e imposto e già tirato un bilancio negativo della detassazione delle ore supplementari, senza che in Italia, dove se ne discute, né governo né sindacato ne abbiano preso atto?

Come avviene che in Francia e in Italia Cgil e Cgt, Cfdt e Cisl, che hanno problemi simili, collocazione analoga, non conoscono e non comunicano sulle pensioni, ieri sotto tiro a Roma, oggi a Parigi, domani di nuovo a Roma?

Come è possibile che la decisione europea di allungare fino a 65 ore l’orario settimanale di lavoro non abbia fatto balzare in piedi i Parlamenti e non abbia riempito le piazze di persone ululanti? E questo vale per tutto: scuola, diritto di famiglia, rapporti civili. In Europa agiscono soltanto i governi, soprattutto i ministri delle finanze e degli interni (polizia). È tanto se l’opinione pacifista si occupa saltuariamente della guerra. Per il resto è come se non ci fossimo se non in sede parlamentare a Bruxelles dove, ammesso che si combatta valorosamente, non si riesce a comunicarlo. I governi hanno deciso in questi giorni un regime immondo sull’immigrazione, ma né le sinistre, né il sindacato, né i media reagiscono.

Non la faccio più lunga. Dico che la difficoltà di rifondare una sinistra non dipende solo dall’essere variata in negativo la soggettività, o più semplicemente il senso comune democratico di almeno metà del Paese, ma anche nella scarsa nostra incapacità di influirvi e, temo, di andarne alle cause più profonde. Rifare una sinistra significa riverificare sul presente quegli strumenti di Marx e Gramsci, che per la verità non sono mai stati eccessivamente usati, in un’analisi del quadro mondiale che per noi comincia da un’Europa della quale le chiavi ci sono accessibili. Dico che significa individuare le figure sociali, i ceti, le classi riformulate e oggi ferite o destabilizzate da una crescita competitiva e per di più infima, dal muoversi incontrollato delle imprese e dei capitali e dalla conseguente percezione generale di precarietà (è questa che diventa insicurezza). Dico che prima di piangere il farsi raro dell’operaio Cipputi, o a scoprirlo con la camicia verde, tocca a noi capirne la paura e soprattutto agire, non solo in battaglie puntuali e locali come quelle, meritorie, della Tav o di Scanzano, ma inerenti a condizioni collettive delle quali sembra che abbiamo perduto il filo. Dico che siamo nell’era della comunicazione in tempo reale e non c’è mai stata meno circolazione di idee, se non quella organizzata da circuiti industriali e padronali. Chi impedisce di far circolare le nostre idee, se ci sono? O è la coscienza che ci fa codardi? Dico infine che senza queste priorità non ci sarà più una sinistra. Può esserci dell’altro, e anche interessante, ma non userei questa parola.