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Non c’è tema
nel dibattito italiano che sia così sfuggente come quello
dell’evoluzione della nostra composizione sociale. Non è quindi da
stupire se esso si presti a una molteplicità di letture, da quella
più compatta e classica (la logica di classe) a quelle più
allegramente random (la diversificata letteratura di
costume); in una sovrapposizione disordinata di posizioni che non
aiuta a mettere a fuoco i fenomeni, i processi, i problemi che
tutti noi ci affanniamo a capire.
Per questo non
mi sembra giusto azzardare un esercizio di sintesi e nemmeno un
ragionamento complessivo; e mi costringo a esprimere la mia
personale lettura dell’argomento, sperando che a qualcuno possa
interessare. E’ una lettura che ruota su tre convinzioni che ho da
sempre messo in campo da almeno tre decenni: la convinzione che la
stagione più aperta e democratica dell’Italia (i cinquanta anni
successivi alla Seconda Guerra Mondiale) abbiano visto lo
sfondamento della gente comune come soggetto di sviluppo, contro
la tradizionale soggettualità delle élites; la convinzione,
in secondo luogo, che negli anni si sia affermato un potente
processo di diffusa cetomedizzazione, di rilievo quasi di massa;
mentre la terza convinzione riguarda l’importanza che nel
diversificato processo di sviluppo italiano ha avuto il primato
della soggettività. Sono questi i grandi assi portanti della
trasformazione profonda avvenuta nella composizione sociale
italiana negli ultimi sei decenni; e converrà richiamarne le linee
essenziali.
Per quanto
riguarda il primo asse, cioè il primato della gente comune
rispetto al potere delle élites, chi mi conosce sa che sono
solito richiamare una frase di un intellettuale risorgimentale (il
De Meis) che scriveva che in Italia ci sono due popoli: il primo
popolo che sfanga la vita nel lavoro quotidiano; e un secondo
popolo che
«pensa il
sentimento del primo e ne è quindi il legittimo sovrano». Non ho
mai trovato una così forte esaltazione delle élites (il
“secondo popolo”) che sanno governare (perché sanno pensare) la
gente comune che si affanna nella quotidianità; e lo stesso Giulio
Bollati, citando la suddetta frase, nota che «non senza fumosità
il De Meis viene a dire che il popolo italiano è materiale spento
e inerte finché non lo penetri la luce e l’attività della élite
pensante».
Se si tengono
a mente queste citazioni si può capire che buona parte della
storia italiana dal 1824 in poi (dal Discorso sopra lo stato
presente dei costumi degl’italiani del Leopardi di quell’anno)
è stata pensata ed attuata dal “secondo popolo”. E’ lui che ha
immaginato l’unità nazionale; che ha costituito lo Stato italiano;
che ha fatto l’apparato istituzionale e identitario della nazione
(dalla scuola pubblica alle regie poste, dal catasto alle dogane,
ecc.); che ha deciso le guerre d’indipendenza e le avventure
coloniali; che ha condannato centinaia di migliaia di giovani alle
demenziali 18 “spallate dell’Isonzo”; che ha esaltato lo spirito
nazionalistico, patriottico, imperiale financo; che ha voluto il
fascismo e il secondo conflitto mondiale; che ha in conclusione
fatto la storia del Paese per quasi cento anni.
La rivincita
della gente comune
Fino al 1945,
quando si è affermata una democrazia non solo politica ed
elettorale ma anche e specialmente sostanziale, dove i singoli
soggetti (individuali e collettivi) sono diventati padroni del
loro destino. E arriva la grande rivincita del “primo popolo”,
cioè della gente comune. E’ il primo popolo che fa la
ricostruzione; che fa il grande processo di migrazione interna;
che fa il miracolo italiano a fine anni ’50; che fa il boom del
consumismo degli anni ’60 e ’70; che fa l’industrializzazione di
massa (raddoppiando fra il censimento del ’71 e quello dell’’81 il
numero delle imprese industriali); che fa la crescita della
piccola impresa in ogni settore merceologico; che fa l’epopea
della patrimonializzazione immobiliare delle prime case (ed anche
delle seconde); che produce il localismo economico dei distretti
industriali (da Valenza Po a Prato, da Montebelluna a Fermo); che
fa gran parte del made in Italy (con il ruolo determinante
delle piccole imprese dei settori a grande intensità di lavoro,
dal calzaturiero all’arredamento, alla pelletteria, ecc.). La
grande cavalcata dello sviluppo italiano dal 1945 al 2000 è in
conclusione frutto esclusivo del primo popolo.
Ed è questo
primato del primo popolo che ha avuto effetti straordinari nella
nostra composizione sociale. Basterebbe andare a sfogliare le
pagine e pagine scritte - anche da me - sulla crisi delle
categorie tradizionali di analisi (la divisione internazionale del
lavoro, la struttura fordista della produzione e del lavoro, la
dinamica di classe, ecc.) e sulla dominanza di categorie “altre”
(il capitalismo molecolare, familiare, individuale, la
parcellizzazione e il policentrismo dei poteri sociali, ecc.),
tutte centrate sulla grande articolazione delle spinte soggettive
alla crescita economica e sociale, in pratica delle responsabilità
dei vari segmenti del primo popolo.
A questo primo
grande motore di trasformazione si è aggiunto, a partire dagli
anni ’70, un secondo motore, quello del processo di
cetomedizzazione. Ricordo le lunghe riunioni al Censis con Paolo
Sylos Labini che stava preparando il suo libro più famoso, quello
sulle classi sociali; e ricordo bene la comune sorpresa, tabella
dopo tabella, nel rilevare che la composizione sociale italiana si
andava trasformando in modo radicale: cresceva a dismisura il
conglomerato centrale dei ceti medi, lasciando sulle ali solo
delle componenti quantitativamente decrescenti, anche se ancora
qualitativamente significative.
In questo
fenomeno incidevano due grandi processi. Da un lato, la crescita
dell’associazionismo categoriale dei lavoratori individuali (ed
anche di quelli dipendenti, se si pensa al pubblico impiego), un
associazionismo che impose il suo potere politico attraverso quel
collateralismo politico che fu coltivato principalmente dalla Dc
ma anche dal Pci; e se oggi dobbiamo fare i conti con
corporativismi di ogni tipo, lo dobbiamo a quell’antica indulgenza
alla logica del collateralismo categoriale.
Dall’altro
lato, nella grande cetomedizzazione giocava anche un processo di
contaminazione culturale: i diversi gruppi sociali che entravano
nel ceto medio non facevano solo mobilità verticale, ma
acquisivano valori, comportamenti, stili di vita di tipo borghese
(nei consumi individuali, nelle scelte formative, nell’allocazione
delle risorse); cosicché non aveva torto Pasolini, quando
preferiva al concetto di cetomedizzazione quello di “grande
imborghesimento”. Oggi, che molti avvertono che il ceto medio è
rimasto storicamente inerte, non è diventato nuova borghesia (io
stesso ho dovuto di recente accettare l’idea di una “eclissi della
borghesia”) e anzi si sfrangia in paure regressive di precarietà,
l’intuizione di Pasolini risulta più profonda della tecnicalità
socioeconomica di Sylos e mia.
La crescita
della soggettività
Ho detto
all’inizio che la vittoria del primo popolo e la cetomedizzazione
sono stati accompagnati, nel corso degli anni, da un terzo grande
motore di trasformazione sociale: la crescita della soggettività.
Non sfugge, a chi ha letto le pagine precedenti, che sotto i due
grandi fenomeni sopra analizzati ha operato una esaltazione del
potere dei singoli soggetti e del riferimento costante a valori di
tipo soggettivo. E’ infatti l’espansione quantitativa dei soggetti
che ha prodotto quella molecolarizzazione della società di cui
continuiamo da tempo a parlare; ed è, nel contempo, l’esaltazione
dei valori di tipo soggettivo che ha connotato i comportamenti di
massa degli italiani (basta pensare al soggettivismo dei consumi,
dell’impegno imprenditoriale, delle scelte familiari, delle
appartenenze religiose). Non avremmo avuto, senza tanta
soggettività e tanto soggettivismo, il boom della piccola impresa,
del lavoro autonomo, della mobilità territoriale, dello sviluppo
delle libertà individuali; del progressivo arbitraggio personale
dei consumi, della moltiplicazione del volontariato,
dell’articolazione degli orientamenti religiosi. Una ricchezza un
po’ disordinata, ma comunque una ricchezza di dinamica sociale,
anche in termini di sempre fluida composizione sociale.
Ma un prezzo
c’è stato: è il prezzo di una crescente solitudine dei vari
soggetti. Soli senza solitudine, soli senza inconscio, soli senza
legami interpersonali (la cosiddetta mucillagine), soli senza una
prospettiva di bene comune e di comune sviluppo, soli senza nuovo
significato del desiderio; si ritrova in queste frasi (molto
citate invero negli ultimi anni) l’altra faccia del carattere
molecolare della struttura socioeconomica italiana, del potente e
progressivo primato della soggettività. Un primato che ha
preoccupato per cinquanta anni la cultura sociale italiana e che
oggi comunque sembra aver esaurito la sua forza di spinta (come
dimostra anche il declino di quella forza politica, il
berlusconismo, che negli ultimi quindici anni lo ha reclamizzato e
cavalcato).
Certo, la
soggettività e il soggettivismo sono destinati a restare dentro la
struttura socioculturale del Paese; ma è altrettanto certo che il
grosso della forza propulsiva del loro ciclo si è già espressa nel
cinquantennio che comincia con la battaglia di Don Milani per la
libertà di coscienza del 1962; un riferimento storico che porta
spesso alla tentazione di applicare anche a tale ciclo la durata
di Kondratiev, cioè 54 anni.
I “tecnici”
unica élite in campo
Ma se sono in
declino i grandi motori dello sviluppo (il primato del “primo
popolo”, la cetomedizzazione e la soggettività), cosa succede
nella composizione sociale italiana? Chi farà da motore dello
sviluppo e verso quale sviluppo ci orienteremo? Sono domande non
stravaganti nel momento in cui, per avventura o per necessità,
ritorna in campo (con il governo Monti, emblematicamente) il ruolo
e il potere dei circuiti élitari.
È naturale che
in ogni crisi grave venga spontaneo il riferimento ai “tecnici”
(l’unica élite oggi sul tappeto); era già avvenuto nella
crisi ’92-’95, quando un gruppo di tecnici ad alto livello fece
fronte alla gravissima situazione economica e politica; e inserì
con forza l’Italia (con Maastricht e l’euro) in un sempre più
cogente processo d’integrazione europea. Ma quei tecnici rimasero
dei “supplenti” temporanei rispetto alla politica e
all’orientamento sociopolitico dello sviluppo e della strutturale
composizione sociale del Paese.
Ho invece
l’impressione che la nuova stagione élitaria tenda a “revocare in
dubbio” quel primato del primo popolo su cui si è basato lo
sviluppo italiano del 1945 in poi. C’è troppa intenzionalità nel
colpevolizzare i comportamenti tipici di tale sviluppo, dalla
proprietà della casa alla soggettività dei consumi, al peso delle
categorie, ecc.; e nell’esprimere la convinzione che (cito di
nuovo Bollati) che la gente comune sbaglia quando non è orientata
dalla sovrana luce del pensiero tecnicamente ineccepibile dell’élite.
Con l’ulteriore pericolosa tendenza a vedere quel pensiero come
originato e governante in Europa, con la inevitabile condanna del
primo popolo ad una doppia etero direzione, interna ed
internazionale.
Ma potrebbe
essere un sospetto temerario quello di vedere in quel che sta
avvenendo una più o meno consapevole e voluta rivincita dei
circuiti elitari rispetto alle masse, forse temporaneamente, e una
politica in crisi. Lasciamolo quindi da parte e riprendiamo il
filo del ragionamento tutto interno alla nostra composizione
sociale, guardando ai fenomeni che si vanno via via affermando,
anche senza penalizzanti interventi provenienti dall’alto.
Il primo è
l’impoverimento di alcuni segmenti del ceto medio cresciuto nei
precedenti decenni: il lavoro impiegatizio è bloccato su livelli
retributivi sempre meno coerenti con l’aumento del costo della
vita; il lavoro indipendente è in crisi di mercato oltre che sul
livello dei ricavi; i piccoli imprenditori sono schiacciati dalle
difficoltà a internazionalizzarsi e, insieme, dalla povertà
progressiva del mercato interno; l’economia sommersa è sempre meno
preparatoria all’emersione di nuove aziende e sempre più
espressione di arrangiamento in lavori poco qualificati; la fascia
di popolazione che aveva fatto la scelta “borghese” di studi
medio-alti naviga in un destino di precariato e di frustrazione;
gli stessi consumi di stampo borghese che avevano allietato la
marcia della cetomedizzazione “non tirano più”, quasi fosse
esaurito il desiderio che li animava. Senza contare che, rispetto
agli anni ’70, abbiamo dentro la nostra struttura sociale circa
quattro milioni di lavoratori e famiglie di stranieri, un’entità
che non può avere gli stessi stimoli e le stesse strade con cui
milioni di italiani sono diventati cetomedio.
Tutto ciò, in
termini di struttura sociale, aumenta le distanze sociali. Il
grande invaso della cetomedizzazione si sfrangia, qualche
categoria ne esce in basso, qualche altra (meno numerosa) ne esce
in alto; finisce con ciò quella sostanziale e implicita coesione
che ha fatto da ammortizzatore delle varie tensioni politiche che
hanno attraversato la storia italiana negli ultimi decenni (dal
separatismo siciliano del dopoguerra al secessionismo leghista
degli anni ’90 e 2000, dalle lotte bracciantili e operaie del
dopoguerra alla contestazione giovanile, dal terrorismo alla crisi
dei partiti negli anni più recenti). Personalmente non credo che
l’aumento delle distanze sociali possa portare a nuove e più calde
tensioni sociali; ma non posso non riflettere al fatto che, ove
esse arrivassero, non avremo più quella base di coesione sociale
che possa derubricarle e via via elaborarle.
Anche perché
la stessa qualità della coesione sociale è andata nei fatti
declinando, insieme all’esaurirsi del primato della soggettività
imperante. La coesione di oggi è l’ampiezza di innumerevoli
soggettivismi (anche etici) che hanno progressivamente corroso le
scelte del bene comune e del vivere bene insieme. Ma questo è un
discorso diverso, che richiederebbe una trattazione a parte,
centrata su quel che da alcuni è stato chiamato disagio o disastro
antropologico; personalmente ho cercato di farlo in altra sede, ma
non credo che sia utile riprenderlo in una riflessione in cui ho
voluto concentrarmi sul tema specifico del mutamento della
composizione sociale.
*presidente del Centro Studi Investimenti Sociali (Censis)
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