Giuseppe De Rita - Dal primato del “primo popolo” alla nuova stagione élitaria

alternative per il socialismo n. 20 - marzo-aprile 2012

 

Non c’è tema nel dibattito italiano che sia così sfuggente come quello dell’evoluzione della nostra composizione sociale. Non è quindi da stupire se esso si presti a una molteplicità di letture, da quella più compatta e classica (la logica di classe) a quelle più allegramente random (la diversificata letteratura di costume); in una sovrapposizione disordinata di posizioni che non aiuta a mettere a fuoco i fenomeni, i processi, i problemi che tutti noi ci affanniamo a capire.

Per questo non mi sembra giusto azzardare un esercizio di sintesi e nemmeno un ragionamento complessivo; e mi costringo a esprimere la mia personale lettura dell’argomento, sperando che a qualcuno possa interessare. E’ una lettura che ruota su tre convinzioni che ho da sempre messo in campo da almeno tre decenni: la convinzione che la stagione più aperta e democratica dell’Italia (i cinquanta anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale) abbiano visto lo sfondamento della gente comune come soggetto di sviluppo, contro la tradizionale soggettualità delle élites; la convinzione, in secondo luogo, che negli anni si sia affermato un potente processo di diffusa cetomedizzazione, di rilievo quasi di massa; mentre la terza convinzione riguarda l’importanza che nel diversificato processo di sviluppo italiano ha avuto il primato della soggettività. Sono questi i grandi assi portanti della trasformazione profonda avvenuta nella composizione sociale italiana negli ultimi sei decenni; e converrà richiamarne le linee essenziali.

Per quanto riguarda il primo asse, cioè il primato della gente comune rispetto al potere delle élites, chi mi conosce sa che sono solito richiamare una frase di un intellettuale risorgimentale (il De Meis) che scriveva che in Italia ci sono due popoli: il primo popolo che sfanga la vita nel lavoro quotidiano; e un secondo popolo che «pensa il sentimento del primo e ne è quindi il legittimo sovrano». Non ho mai trovato una così forte esaltazione delle élites (il “secondo popolo”) che sanno governare (perché sanno pensare) la gente comune che si affanna nella quotidianità; e lo stesso Giulio Bollati, citando la suddetta frase, nota che «non senza fumosità il De Meis viene a dire che il popolo italiano è materiale spento e inerte finché non lo penetri la luce e l’attività della élite pensante».

Se si tengono a mente queste citazioni si può capire che buona parte della storia italiana dal 1824 in poi (dal Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani del Leopardi di quell’anno) è stata pensata ed attuata dal “secondo popolo”. E’ lui che ha immaginato l’unità nazionale; che ha costituito lo Stato italiano; che ha fatto l’apparato istituzionale e identitario della nazione (dalla scuola pubblica alle regie poste, dal catasto alle dogane, ecc.); che ha deciso le guerre d’indipendenza e le avventure coloniali; che ha condannato centinaia di migliaia di giovani alle demenziali 18 “spallate dell’Isonzo”; che ha esaltato lo spirito nazionalistico, patriottico, imperiale financo; che ha voluto il fascismo e il secondo conflitto mondiale; che ha in conclusione fatto la storia del Paese per quasi cento anni.

 

La rivincita della gente comune

Fino al 1945, quando si è affermata una democrazia non solo politica ed elettorale ma anche e specialmente sostanziale, dove i singoli soggetti (individuali e collettivi) sono diventati padroni del loro destino. E arriva la grande rivincita del “primo popolo”, cioè della gente comune. E’ il primo popolo che fa la ricostruzione; che fa il grande processo di migrazione interna; che fa il miracolo italiano a fine anni ’50; che fa il boom del consumismo degli anni ’60 e ’70; che fa l’industrializzazione di massa (raddoppiando fra il censimento del ’71 e quello dell’’81 il numero delle imprese industriali); che fa la crescita della piccola impresa in ogni settore merceologico; che fa l’epopea della patrimonializzazione immobiliare delle prime case (ed anche delle seconde); che produce il localismo economico dei distretti industriali (da Valenza Po a Prato, da Montebelluna a Fermo); che fa gran parte del made in Italy (con il ruolo determinante delle piccole imprese dei settori a grande intensità di lavoro, dal calzaturiero all’arredamento, alla pelletteria, ecc.). La grande cavalcata dello sviluppo italiano dal 1945 al 2000 è in conclusione frutto esclusivo del primo popolo.

Ed è questo primato del primo popolo che ha avuto effetti straordinari nella nostra composizione sociale. Basterebbe andare a sfogliare le pagine e pagine scritte - anche da me - sulla crisi delle categorie tradizionali di analisi (la divisione internazionale del lavoro, la struttura fordista della produzione e del lavoro, la dinamica di classe, ecc.) e sulla dominanza di categorie “altre” (il capitalismo molecolare, familiare, individuale, la parcellizzazione e il policentrismo dei poteri sociali, ecc.), tutte centrate sulla grande articolazione delle spinte soggettive alla crescita economica e sociale, in pratica delle responsabilità dei vari segmenti del primo popolo.

A questo primo grande motore di trasformazione si è aggiunto, a partire dagli anni ’70, un secondo motore, quello del processo di cetomedizzazione. Ricordo le lunghe riunioni al Censis con Paolo Sylos Labini che stava preparando il suo libro più famoso, quello sulle classi sociali; e ricordo bene la comune sorpresa, tabella dopo tabella, nel rilevare che la composizione sociale italiana si andava trasformando in modo radicale: cresceva a dismisura il conglomerato centrale dei ceti medi, lasciando sulle ali solo delle componenti quantitativamente decrescenti, anche se ancora qualitativamente significative.

In questo fenomeno incidevano due grandi processi. Da un lato, la crescita dell’associazionismo categoriale dei lavoratori individuali (ed anche di quelli dipendenti, se si pensa al pubblico impiego), un associazionismo che impose il suo potere politico attraverso quel collateralismo politico che fu coltivato principalmente dalla Dc ma anche dal Pci; e se oggi dobbiamo fare i conti con corporativismi di ogni tipo, lo dobbiamo a quell’antica indulgenza alla logica del collateralismo categoriale.

Dall’altro lato, nella grande cetomedizzazione giocava anche un processo di contaminazione culturale: i diversi gruppi sociali che entravano nel ceto medio non facevano solo mobilità verticale, ma acquisivano valori, comportamenti, stili di vita di tipo borghese (nei consumi individuali, nelle scelte formative, nell’allocazione delle risorse); cosicché non aveva torto Pasolini, quando preferiva al concetto di cetomedizzazione quello di “grande imborghesimento”. Oggi, che molti avvertono che il ceto medio è rimasto storicamente inerte, non è diventato nuova borghesia (io stesso ho dovuto di recente accettare l’idea di una “eclissi della borghesia”) e anzi si sfrangia in paure regressive di precarietà, l’intuizione di Pasolini risulta più profonda della tecnicalità socioeconomica di Sylos e mia.

 

La crescita della soggettività

Ho detto all’inizio che la vittoria del primo popolo e la cetomedizzazione sono stati accompagnati, nel corso degli anni, da un terzo grande motore di trasformazione sociale: la crescita della soggettività. Non sfugge, a chi ha letto le pagine precedenti, che sotto i due grandi fenomeni sopra analizzati ha operato una esaltazione del potere dei singoli soggetti e del riferimento costante a valori di tipo soggettivo. E’ infatti l’espansione quantitativa dei soggetti che ha prodotto quella molecolarizzazione della società di cui continuiamo da tempo a parlare; ed è, nel contempo, l’esaltazione dei valori di tipo soggettivo che ha connotato i comportamenti di massa degli italiani (basta pensare al soggettivismo dei consumi, dell’impegno imprenditoriale, delle scelte familiari, delle appartenenze religiose). Non avremmo avuto, senza tanta soggettività e tanto soggettivismo, il boom della piccola impresa, del lavoro autonomo, della mobilità territoriale, dello sviluppo delle libertà individuali; del progressivo arbitraggio personale dei consumi, della moltiplicazione del volontariato, dell’articolazione degli orientamenti religiosi. Una ricchezza un po’ disordinata, ma comunque una ricchezza di dinamica sociale, anche in termini di sempre fluida composizione sociale.

Ma un prezzo c’è stato: è il prezzo di una crescente solitudine dei vari soggetti. Soli senza solitudine, soli senza inconscio, soli senza legami interpersonali (la cosiddetta mucillagine), soli senza una prospettiva di bene comune e di comune sviluppo, soli senza nuovo significato del desiderio; si ritrova in queste frasi (molto citate invero negli ultimi anni) l’altra faccia del carattere molecolare della struttura socioeconomica italiana, del potente e progressivo primato della soggettività. Un primato che ha preoccupato per cinquanta anni la cultura sociale italiana e che oggi comunque sembra aver esaurito la sua forza di spinta (come dimostra anche il declino di quella forza politica, il berlusconismo, che negli ultimi quindici anni lo ha reclamizzato e cavalcato).

Certo, la soggettività e il soggettivismo sono destinati a restare dentro la struttura socioculturale del Paese; ma è altrettanto certo che il grosso della forza propulsiva del loro ciclo si è già espressa nel cinquantennio che comincia con la battaglia di Don Milani per la libertà di coscienza del 1962; un riferimento storico che porta spesso alla tentazione di applicare anche a tale ciclo la durata di Kondratiev, cioè 54 anni.

 

I “tecnici” unica élite in campo

Ma se sono in declino i grandi motori dello sviluppo (il primato del “primo popolo”, la cetomedizzazione e la soggettività), cosa succede nella composizione sociale italiana? Chi farà da motore dello sviluppo e verso quale sviluppo ci orienteremo? Sono domande non stravaganti nel momento in cui, per avventura o per necessità, ritorna in campo (con il governo Monti, emblematicamente) il ruolo e il potere dei circuiti élitari.

È naturale che in ogni crisi grave venga spontaneo il riferimento ai “tecnici” (l’unica élite oggi sul tappeto); era già avvenuto nella crisi ’92-’95, quando un gruppo di tecnici ad alto livello fece fronte alla gravissima situazione economica e politica; e inserì con forza l’Italia (con Maastricht e l’euro) in un sempre più cogente processo d’integrazione europea. Ma quei tecnici rimasero dei “supplenti” temporanei rispetto alla politica e all’orientamento sociopolitico dello sviluppo e della strutturale composizione sociale del Paese.

Ho invece l’impressione che la nuova stagione élitaria tenda a “revocare in dubbio” quel primato del primo popolo su cui si è basato lo sviluppo italiano del 1945 in poi. C’è troppa intenzionalità nel colpevolizzare i comportamenti tipici di tale sviluppo, dalla proprietà della casa alla soggettività dei consumi, al peso delle categorie, ecc.; e nell’esprimere la convinzione che (cito di nuovo Bollati) che la gente comune sbaglia quando non è orientata dalla sovrana luce del pensiero tecnicamente ineccepibile dell’élite. Con l’ulteriore pericolosa tendenza a vedere quel pensiero come originato e governante in Europa, con la inevitabile condanna del primo popolo ad una doppia etero direzione, interna ed internazionale.

Ma potrebbe essere un sospetto temerario quello di vedere in quel che sta avvenendo una più o meno consapevole e voluta rivincita dei circuiti elitari rispetto alle masse, forse temporaneamente, e una politica in crisi. Lasciamolo quindi da parte e riprendiamo il filo del ragionamento tutto interno alla nostra composizione sociale, guardando ai fenomeni che si vanno via via affermando, anche senza penalizzanti interventi provenienti dall’alto.

Il primo è l’impoverimento di alcuni segmenti del ceto medio cresciuto nei precedenti decenni: il lavoro impiegatizio è bloccato su livelli retributivi sempre meno coerenti con l’aumento del costo della vita; il lavoro indipendente è in crisi di mercato oltre che sul livello dei ricavi; i piccoli imprenditori sono schiacciati dalle difficoltà a internazionalizzarsi e, insieme, dalla povertà progressiva del mercato interno; l’economia sommersa è sempre meno preparatoria all’emersione di nuove aziende e sempre più espressione di arrangiamento in lavori poco qualificati; la fascia di popolazione che aveva fatto la scelta “borghese” di studi medio-alti naviga in un destino di precariato e di frustrazione; gli stessi consumi di stampo borghese che avevano allietato la marcia della cetomedizzazione “non tirano più”, quasi fosse esaurito il desiderio che li animava. Senza contare che, rispetto agli anni ’70, abbiamo dentro la nostra struttura sociale circa quattro milioni di lavoratori e famiglie di stranieri, un’entità che non può avere gli stessi stimoli e le stesse strade con cui milioni di italiani sono diventati cetomedio.

Tutto ciò, in termini di struttura sociale, aumenta le distanze sociali. Il grande invaso della cetomedizzazione si sfrangia, qualche categoria ne esce in basso, qualche altra (meno numerosa) ne esce in alto; finisce con ciò quella sostanziale e implicita coesione che ha fatto da ammortizzatore delle varie tensioni politiche che hanno attraversato la storia italiana negli ultimi decenni (dal separatismo siciliano del dopoguerra al secessionismo leghista degli anni ’90 e 2000, dalle lotte bracciantili e operaie del dopoguerra alla contestazione giovanile, dal terrorismo alla crisi dei partiti negli anni più recenti). Personalmente non credo che l’aumento delle distanze sociali possa portare a nuove e più calde tensioni sociali; ma non posso non riflettere al fatto che, ove esse arrivassero, non avremo più quella base di coesione sociale che possa derubricarle e via via elaborarle.

Anche perché la stessa qualità della coesione sociale è andata nei fatti declinando, insieme all’esaurirsi del primato della soggettività imperante. La coesione di oggi è l’ampiezza di innumerevoli soggettivismi (anche etici) che hanno progressivamente corroso le scelte del bene comune e del vivere bene insieme. Ma questo è un discorso diverso, che richiederebbe una trattazione a parte, centrata su quel che da alcuni è stato chiamato disagio o disastro antropologico; personalmente ho cercato di farlo in altra sede, ma non credo che sia utile riprenderlo in una riflessione in cui ho voluto concentrarmi sul tema specifico del mutamento della composizione sociale.

 

*presidente del Centro Studi Investimenti Sociali (Censis)