Franco Cassano - Da terra di frontiera a luogo d’incontro con l’altro. L’occasione mediterranea alternative per il socialismo n. 2 - luglio-agosto 2007
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Fino a non molti anni fa parlare di alternativa mediterranea sarebbe apparso una stranezza, perché nell’immaginario collettivo tutta l’area che circonda quel mare era sinonimo di arretratezza e sottosviluppo. Gli occhi di tutti erano tesi verso Nord e verso Ovest, mentre dall’altra parte c’era solo il passato da cui si voleva fuggire. Chi trasgrediva questo assunto era accusato di esotismo ed estetismo, di oscure connivenze con le patologie dell’arretratezza. Insomma il Mediterraneo era sempre e soltanto dalla parte dei problemi, mentre il campo delle soluzioni era tutto dall’altra parte. Questa segnaletica ha cominciato a mutare con la fine della “guerra fredda”, che ha dischiuso la possibilità di costruire scenari nuovi e diversi da quelli bloccati nella camicia di forza di un mondo bipolare. Il nostro paese si è accorto di essere un crocevia obbligato per chi attraversa quel vecchio mare e, proprio per questo, di godere di un potenziale vantaggio competitivo nella costruzione di un dialogo tra le diverse sponde. La stessa Unione europea iniziò a guardare a sud, aprendo nel 1995 a Barcellona la stagione del partenariato euro-mediterraneo. Era un passaggio timido e ambiguo, oggi manifestamente in crisi, ma rivelava un importante mutamento delle rotte dello sguardo e dell’immaginario. Lavorando su questo mutamento si poteva provare a costruire un rapporto paritario tra i popoli, a rendere il Mediterraneo il teatro di un’alleanza tra le civiltà e ad aprire una nuova pagina del futuro. Gli ostacoli erano molti, ma bisognava approfittare della finestra aperta dalla storia.
La posta in gioco di questo processo di cambiamento L’11 settembre 2001 ha segnato simbolicamente un brusco arresto, e il Mediterraneo, che sembrava finalmente entrato nella casella delle opportunità, è tornato, con la soddisfazione di quelli che avevano ostacolato la sua “scoperta”, in quella dei problemi. È come se le sponde di questo mare, che la fine della guerra fredda aveva reso più vicine, avessero ricominciato ad allontanarsi e la deriva dei continenti avesse subito una brusca accelerazione. Altro che luogo dell’incontro e della collaborazione! Nello scontro tra le civiltà il Mediterraneo è mare di frontiera, il confine su cui passa la linea di divisione tra il Nord-Ovest e il Sud-Est del mondo. Se l’Occidente deve, come pretende Huntington (1), compattare la sua unità, il primato spetta all’Atlantico ed è bene che l’Europa soffochi ogni ambizione e il Mediterraneo torni ad allargarsi. E se l’esportazione militare della libertà, così cara al governo degli Stati Uniti, si è risolta, come molti osservatori ormai riconoscono, in una visibile sconfitta, è però sicuramente riuscita ad allargare la spirale dell’odio e del risentimento. Non è vero che i duri cominciano a giocare solo quando il gioco si fa duro: essi lo fanno sin dal primo momento per dare al gioco quella forma che ne fa i protagonisti esclusivi. S’innesca così una perversa profezia che si auto-adempie: chi gioca pesante rende pesante il gioco altrui e usa questa reazione come argomento per escludere chi avrebbe scelto la via opposta. Tra i duri di una parte e quelli dell’altra c’è da sempre un’oscura complicità, la comune vocazione all’annichilamento dell’altro, un’idea totalizzante e integralistica della propria cultura. L’esaltazione del conflitto tra le civiltà ha quindi conseguito almeno in parte un importante risultato, quello di frenare la costruzione dell’autonomia europea e di ridimensionare la percezione dell’importanza strategica che per l’Unione avrebbe un’alternativa mediterranea. Ma anche se queste battute d’arresto sono gravi, la partita è tutt’altro che chiusa perché una tale riduzione dell’autonomia dell’Unione Europea, la renderebbe una costruzione sempre più fragile e reversibile. Se l’Europa rinunzia a proporsi come un’idea di Occidente diversa da quella dominante, come un’area di contatto e di scambio tra le civiltà, rimarrà un soggetto minore della scena mondiale. La scelta del conflitto tra le civiltà, tutta fondata sulla costruzione di scudi e frontiere, è una strada senza uscita e non prevede l’Europa. Ormai incominciano ad accorgersene in molti.
Lo scontro delle emozioni In un breve saggio comparso all’inizio di quest’anno, un noto studioso di relazioni internazionali, il francese Dominique Moisi, ha proposto un’originale chiave di lettura dell’attuale situazione geopolitica del mondo, rappresentandola nei termini di uno scontro tra emozioni (2). Secondo Moisi le diverse aree del pianeta sono caratterizzate da atteggiamenti emotivi profondamente diversi e talvolta contrastanti. L’Occidente è dominato dalla paura, anche se questo sentimento è modulato diversamente in Europa e negli Stati Uniti. Se poi ci si volge lo sguardo fuori dell’Occidente si scopre che mentre i paesi islamici sono dominati dall’umiliazione, l’Oriente asiatico vive una stagione caratterizzata dalla prevalenza della speranza. Tali sentimenti configurano visioni del mondo molto diverse, rapporti diversi con le sfide della storia. Mentre la Cina e l’India guardano al futuro come una promessa e l’occasione per un nuovo protagonismo, l’Occidente sembra invece sentirlo soprattutto come fonte di minaccia, come una crescita di turbolenze che può solo peggiorare la situazione presente, pregiudicando posizioni acquisite nel passato. Da un lato gli Stati Uniti sentono messo in discussione il loro primato planetario e la crescita del loro isolamento, dall’altro l’Europa teme di essere sommersa dalle ondate migratorie e di perdere antiche garanzie. Insomma ad Ovest la storia nuova appare soprattutto come fonte di angoscia e di pericolo. Dal canto loro i paesi islamici, costretti, dopo secoli di grandezza, in una posizione di costante inferiorità rispetto all’Occidente, sembrano dominati da un’infelicità (3) che alimenta il risentimento. Essi vedono la modernità occidentale solo come una fonte di corruzione e decadenza morale, alla quale oppongono il ritorno alla presunta purezza della tradizione. Qui il futuro è totalmente imprigionato nel passato. Questo scontro tra emozioni compromette la possibilità di dialogare serenamente e di cercare soluzioni condivise e capaci di offrire una prospettiva non distruttiva. La dinamica delle relazioni tra le grandi aree del pianeta è infatti una sorta di circolo vizioso, un gioco che si avvita su se stesso, in cui ogni polo della relazione replica il proprio comportamento, esasperando ad ogni giro l’incomunicabilità con gli altri poli. Insomma il conflitto tra le emozioni si può trasformare in un catastrofico conflitto tra le civiltà. Le tesi di Moisi sono sicuramente discutibili, ma hanno il pregio di rappresentare in modo netto le tensioni derivanti dall’accentuarsi dell’incommensurabilità tra le diverse aree del pianeta. E proprio per questo possono suggerirci alcune indicazioni di metodo e qualche mossa per cambiare le cose. Chi non vuole essere risucchiato da questa dinamica catastrofica deve provare a cambiare il gioco, a sparigliare le carte. Talvolta una porta non la si riesce ad aprire solo perché si continua a spingerla, mentre basterebbe provare a tirarla. La soluzione di un problema complesso talvolta è molto semplice, è come la lettera rubata di Poe, che non riusciamo a vedere perché è lì davanti ai nostri occhi. Nel nostro caso la lettera rubata è la trasformazione del Mediterraneo da terra di frontiera in luogo d’incontro con l’altro. Lo riconosce lo stesso Moisi, che vede nel conflitto israelo-palestinese “un microcosmo e un possibile precedente di quello che sta diventando il mondo”. Pur essendo stato talvolta accusato di eccessiva comprensione delle ragioni di Israele, Moisi vede bene che il paradigma dell’umiliazione parte da lì. Insomma per ridare speranza e fiducia al mondo islamico e all’Occidente è necessario mutare quanto prima e nel modo più netto una relazione che produce malessere in entrambi i poli. La prevalenza della paura nel mondo occidentale non nasce solo dal suo rapporto con il mondo islamico, ma viene sicuramente accentuata da una relazione malsana con i vicini: avere dei vicini che si sentono umiliati non rende sicura la vita, specialmente se quel sentimento non è privo di fondamento. Infatti fino a quando il gioco rimarrà quello attuale, in cui l’egemonia di un Occidente a direzione atlantica ritiene indispensabile e indiscutibile non un rapporto alla pari, ma un incontrastato controllo geopolitico della regione, sarà molto difficile sottrarsi ad una spirale che moltiplica sia l’umiliazione che la paura. Alcuni studiosi criticano il vittimismo prevalente nel mondo islamico, sottolineando che esso porta a giustificare i propri errori scaricandone la responsabilità sull’Occidente. Questo argomento coglie un aspetto reale, ma noi riteniamo che la terapia preliminare per indebolire ogni propensione all’autovittimizzazione sia quella di rimuoverne le cause politiche, economiche e sociali, riducendo l’asimmetria attuale del rapporto tra il mondo occidentale e quello islamico. Come si può pensare che l’umiliazione scompaia se uno dei due poli presidia militarmente in forma diretta e indiretta l’altro e pensa di poter tranquillamente dettare la propria legge in casa altrui? Insomma l’umiliazione ha qualche corposa ragione in questa radicale disparità dei differenziali di potere: essa non è immaginaria, ma reale, e l’unico modo di colpire gli alibi cresciuti alla sua ombra nel mondo islamico è quello di avviare la costruzione di una relazione simmetrica e giusta tra i due mondi.
Un’occasione per l’Europa Questo mutamento richiede un ruolo forte e autonomo dell’Unione europea, la sua capacità di giocare una parte importante negli scenari del futuro. Si tratta di una lunga traversata, per la quale sono necessari capitani coraggiosi, immaginazione geopolitica e una duttilità lontana da ogni settarismo. Ma se l’Europa riuscisse ad avviare un simile processo, trasformando il corto circuito dell’estraneità e del sospetto reciproci in una grande convenienza comune, il sentimento di umiliazione e la presa del fondamentalismo nel mondo islamico incomincerebbero a incrinarsi, favorendo l’affermarsi all’interno di esso di una “terza via” tra la dipendenza dall’Occidente e l’opzione fondamentalista. Ma perché questa via si affermi occorre che l’Europa cessi di pensare se stessa come uno stadio arretrato della modernità rispetto a quello rappresentato dalla “giovane” America. L’equilibrio tra uguaglianza e libertà non è un residuo da cancellare, ma una condizione essenziale per il dialogo con le culture non colonizzate dal mito dell’onnipotenza del mercato. Questo equilibrio europeo non è il passato, ma il futuro, un ponte tra mondi, capace di evitare la deriva che ne accentua l’incommensurabilità. Un rapporto più giusto ed equilibrato tra i soggetti che dialogano indebolirebbe quella militarizzazione delle culture che è il cuore dell’integralismo, ne metterebbe in moto la complessità e le potenzialità creative, erodendo la perversa egemonia dei duri di una parte e dell’altra. La pressione dell’appartenenza culturale, che tanto angosciava Edward W. Said (4), non va combattuta frontalmente in nome di un universalismo riconosciuto solo da alcuni, ma indebolendo le linee di confine e di contrapposizione, incrementando scambi, amicizia e cooperazione, e costruendo una forma dell’universale in cui sia riconoscibile l’impronta di più mani, facendo pesare nella sua costruzione il contributo di tutti. Il crogiolarsi nell’opposizione tra universalismo e relativismo è una ginnastica per pensatori pigri. Come diceva già tanti anni fa Raimon Pannikar (5), l’universale è come una montagna la cui vetta si può raggiungere percorrendo sentieri diversi, ognuno dei quali ha i suoi tempi, i suoi spazi, la sua asprezza, la sua bellezza e i suoi silenzi. Pensare che ci sia una sola strada di accesso alla vetta, confondere e cancellare gli altri sentieri è pericoloso per tutti. Se sulle rive del Mediterraneo iniziasse una profezia positiva capace di accelerare la spirale delle aperture, si innescherebbe il potenziale creativo delle tradizioni: al posto dei costi dello scontro tra le civiltà si affermerebbero i benefici di un gioco di cooperazione, si avvierebbe la creazione per tutti di un formidabile valore aggiunto. La lettera rubata è lì di fronte e basta solo spostare lo sguardo. Questo incontro deve però essere molto di più del progetto disegnato, con un fastidioso paternalismo e un’incredibile mancanza di fantasia, dall’Unione all’inizio del partenariato euro-mediterraneo. Si tratta di qualcosa di più impegnativo di un semplice supplemento alla costruzione esistente6, di mettere in campo un’idea di Europa, che invece di fare gli esami a chi vuole aderire ad essa, sappia concepire una politica di grande respiro, costruire rapporti nuovi con tutti i vicini. L’Unione dovrebbe capire che il Mediterraneo non è una divagazione turistica e sentimentale, ma la vera prova della sua maturità politica e culturale, il superamento reale del vecchio etnocentrismo coloniale. Le differenze culturali non vanno viste come un ostacolo, come la barriera da abbattere per entrare nel club dei paesi ricchi, ma come una risorsa per attivare processi nuovi sulle diverse sponde del Mediterraneo, per avviare uno sviluppo che non è la replica attardata e spesso fallimentare dei modelli esistenti, ma qualcosa di profondamente diverso.
Beni comuni al primo posto Il primo posto spetta alla difesa dei beni comuni, dall’ambiente marino alle coste e al paesaggio, di un’eredità geografica e culturale piena di ibridi nati dai transiti nei secoli degli uomini da una riva all’altra. Leggere questo paesaggio come un bene indivisibile significa trasformare le invasioni, le lotte e le conquiste succedutesi nei secoli in una grande risorsa comune, federare le differenze. Ma significa anche mutare l’idea di ricchezza, distinguerla dall’assalto predatorio e distruttivo. La qualità della vita è data dalla qualità del rapporto con gli altri, dal patrimonio di amicizia, fiducia, rispetto e di cura su cui si può contare. È di qui che nasce la civiltà degli scambi, il consolidarsi e l’intreccio degli interessi. L’umanità che crede di arricchirsi assaltando i beni comuni è spaventosamente miope perché sta segando il ramo su cui è seduta. Su questi temi, che il fondamentalismo del mercato ha relegato nel passato, abbiamo sicuramente qualcosa da imparare dalle culture “arretrate” (7). L’antitesi del conflitto delle civiltà è la misura, un’idea di equilibrio tra terra e mare che il Mediterraneo reca nel suo stesso nome. La terra che non conosce il mare è quella da cui è proibito partire, dove l’appartenenza vede la libertà come un tradimento o una defezione. Ma un mare che non conosce la terra è il regno della infinita precarietà, è una liquidità che sbriciola ogni durata, che frantuma l’“io” nella micro-fisica delle sue emozioni, allontanandolo dal “noi”. Libertà e legame, io e noi, mare e terra: è in questo equilibrio che va inserita l’intelligenza sottile della conoscenza, l’opera discreta e sottile di una tecnologia capace di rispettare il silenzio e il paesaggio. Non si tratta di arrestare il sapere con vecchi interdetti, ma di sottrarlo alla sua autroreferenzialità, di spronarlo a confrontarsi con la tutela del pianeta. Il contatto pacifico tra i mondi allarga le possibilità creative aperte di ciascuno di essi. Si pensi a quello strano ibrido che è il “femminismo islamico” (8), l’orientamento di pensiero e di azione che vede alcune importanti studiose di quell’area culturale impegnate nel compito di liberare la tradizione dalle interpolazioni patriarcali degli interpreti, esibendo la contraddizione tra esse e l’assunto dell’uguaglianza di tutti i fedeli davanti a Dio. Una cultura capace di guardarsi con gli occhi dell’altra, non si perde, ma si arricchisce e suggerisce alle altre nuove prospettive. È comodo pensare che le prevaricazioni siano insediate solo nella tradizione, ma il corpo femminile, che nella nostra modernità sembra liberamente esibito, non è ancora governato dai dispositivi del potere maschile? In conclusione, in ognuna delle emozioni di cui parla Moisi c’è un potenziale da non perdere, un nucleo da salvare. La paura ha da apprendere dalla speranza un’idea positiva del futuro, perché l’idea di un domani migliore attiva negli uomini energie insospettabili, quel coraggio che nasce quando ci si sente all’inizio. Dal canto suo la speranza può imparare dalla paura il sentimento della fragilità, della precarietà che circonda le costruzioni dell’uomo. Non ha senso competere con le nuove potenze asiatiche rincorrendole sul terreno di quel “progresso” prometeico, che è stato a suo tempo percorso dall’Europa. Certo il sentimento della fragilità può paralizzare e le “passioni tristi”, se lasciate alla loro deriva, possono alimentare un’ansia ingovernabile, l’avversione a ogni cambiamento, una vita sterilizzata dall’ossessione della “precauzione” (9). Una vita passata tutta in difesa e dominata dalla paranoia della profilassi ricorda quella talpa di Kafka che, per rendere più sicura la sua tana, la dissemina di cunicoli e di snodi, con l’unico risultato di moltiplicare trasalimenti e angosce. Ma occorre avere equilibrio perché nella paura c’è anche un deposito di saggezza: essa è la coscienza del limite, un antidoto prezioso contro quell’ebbrezza da dominio per la quale il pianeta sta iniziando a mandarci il conto. Infine si può imparare qualcosa anche dall’umiliazione: per non essere avvelenata ogni relazione con l’altro deve fondarsi su criteri minimi comuni di giustizia e di rispetto. Non umiliare l’altro conviene, perché blocca la spirale del rancore e del risentimento: la pace, quando è accompagnata dalla giustizia, è più larga e più lunga. Mediterraneo vuol dire anche questo, la saggezza della misura di fronte alla china rovinosa del conflitto delle emozioni. La misura richiede tutti i tempi del verbo, il futuro, il presente e il passato. Tale saggezza è presente in tutte le tradizioni. Talvolta sembra scomparsa, ma si è solo acquattata sul fondo. Bisogna andare a cercarla e farla tornare alla luce. Oggi la parola rivoluzione è inscindibile da questa ricerca.
Note 1 Più volte abbiamo criticato duramente (da ultimo in Necessità del Mediterraneo, in F. Cassano e D. Zolo (a cura di), L’alternativa mediterranea, Feltrinelli, Milano 2007, pp. 78- 119) il libro di Huntington (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997). Ad esso va però riconosciuto il merito di confrontarsi con le tensioni che attraversano il pianeta, a differenza di altri bestseller di questi anni. Si pensi a quel libro che, subito dopo il crollo del muro, pronosticò la fine della storia oppure a quello che, inseguendo la contrapposizione tra impero e moltitudine, sembra rimuovere come secondaria e transitoria l’enorme mole dei processi non riducibili a questa dicotomia.
2 D. Moisi, The Clash of Emotions, “Foreign Affairs”, vol. 86, n. 1, pp. 8-13.
3 S. Kassir, L’infelicità araba, Einaudi, Torino, 2006.
4 Pensiamo soprattutto alle lezioni contenute in un testo famoso come Dire la verità. Gli intellettuali e il potere (Feltrinelli, Milano, 1995) 5 R. Pannikar, Il dialogo intrareligioso, Cittadella editrice, Assisi, 1988.
6 Su questo punto un utile punto di partenza sono le considerazioni di Bruno Amoroso contenute in Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro, Dedalo, Bari, 2000.
7 Su questo punto si vedano le importanti osservazioni di G. Spivak, in Re-immaginare il pianeta, “Autaut”, 312, 2002, e in Raddrizzare i torti, in N. Owen (a cura di), Troppo umano. La giustizia nell’era della globalizzazione, Mondadori, Milano, 2005.
8 Su questo tema si veda il capitolo La donna nel Mediterraneo, ne L’alternativa mediterranea, cit., pp. 313-76.
9 Si potrebbe partire dal libro di M. Benasayag e G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2004, che, muovendo dall’espressione di Spinosa, ha il merito di mostrare come l’enfasi sul rischio e la minaccia che caratterizzano la tarda modernità producano nuove patologie. Ma si vedano anche le discutibili, ma interessanti considerazioni di Frank Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano, 2005. Dello stesso Furedi sono da vedere Culture of Fear: Risk-Taking and the Morality of Low Expectation, seconda edizione, Continum Press, London, 2002, e il recente Politics of Fear, Continum Press, London, 2005.
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