Lucio Caracciolo - Il Mediterraneo, temuto dall’Europa,sarà sempre di più un mare asiatico

alternative per il socialismo n. 16 aprile-maggio 2011

 

 


 

 

L’onda anomala che sta sconvolgendo lo scenario geopolitico dell’intero mondo islamico, dal Maghreb al Mashreq, dalla Penisola Arabica al Golfo Persico, apre una fase di cambiamento dagli esiti imprevedibili, ma che certamente toccheranno gli equilibri europei e occidentali e il nostro stesso stile di vita.

La caratteristica unificante e decisiva di questi movimenti è il fattore giovanile. Non è solo un dato bio-demografico, ma socio-geopolitico. Società giovani come quelle arabe esprimono naturalmente una disponibilità al nuovo che, nei nostri relativamente senili paesi europei, altrettanto naturalmente latita. Se la metà o più della popolazione ha meno di 25 anni, non è contenta del presente e immagina di non avere sbocchi, prima o poi la rivolta contro poteri corrotti e autoritari che negano l’idea stessa di futuro è inevitabile. Di qui un altro tratto fin troppo enfatizzato dei rivolgimenti in corso: l’uso di Internet e dei suoi derivati. Senza questi strumenti le rivolte di Tunisia ed Egitto non sarebbero state possibili, non almeno nei tempi e nelle forme che abbiamo osservato.

Fin qui i rudimenti di un’analisi sociologica. Sui quali occorrerà comunque riflettere, visto che non si trattava di segreti di Stato. Eppure nessuno o quasi - tanto meno i regimi investiti dall’onda - si aspettava quello che è accaduto e continua ad accadere. Un riflesso conservatore toccava non solo le politiche, ma anche le intelligenze di chi si è occupato in questi anni di un mondo arabo apparentemente destinato a restare eternamente uguale a se stesso.

Se passiamo alla geopolitica, otteniamo un quadro molto più analitico e differenziato. Anzitutto, occorre distinguere fra fenomeni regionali e fenomeni globali. Ai primi vanno ricondotti la Tunisia e in buona misura anche l’Egitto. Rivoluzioni in corso, che cambiano (specie in Egitto) la faccia del Nordafrica e del Vicino Oriente. Ma non cambiano il mondo. Alla seconda categoria vanno invece assegnati i sommovimenti, ancora allo stadio iniziale, nella Penisola Arabica. Dallo Yemen, uno Stato ormai fallito, all’Oman e soprattutto al Bahrein arrivano segnali di valore davvero strategico. Perché minacciano la stabilità dell’Arabia Saudita, nella quale si notano già segni di agitazione. E se salta la Casa di Saud, saltano gli equilibri globali. Gli autocrati sauditi sono i custodi dei Luoghi Santi ai maomettani, ma soprattutto dei più capienti forzieri energetici del pianeta, ai quali noi occidentali - ma anche le potenze industriali asiatiche - non cessiamo di attingere. I due terzi delle riserve di idrocarburi del pianeta sono nella regione del Golfo, in buona parte in territorio saudita. Infine, qui si gioca la partita decisiva per l’influenza nel mondo islamico. Da una parte il blocco arabo sunnita guidato dall’Arabia Saudita, dall’altra la Persia (Iran) sciita, con le sue ramificazioni: Hizbullah, Siria, gran parte dell’Iraq e soprattutto le popolazioni sciite della Penisola Arabica, specie quelle insediate nell’Oriente saudita, proprio dove si trovano i megagiacimenti di petrolio e gas. E dove passano le rotte marittime che, attraverso lo Stretto di Hormuz, convogliano gli idrocarburi del Golfo verso i consumatori europei, asiatici e americani. Un fiammifero gettato in una regione così ricca di materiale infiammabile sconvolgerebbe il pianeta.

Alcuni vogliono vedere questo fiammifero nella rivolta dei sudditi del re del Bahrein. Circa il 70% degli abitanti di quest’isola strategica sono sciiti, mentre il monarca è sunnita. Qui c’è una delle maggiori basi americane della regione, con la sede del comando della Quinta Flotta. Peggio: Bahrein è collegata con una breve strada sopraelevata alla terraferma, ossia all’Arabia Saudita. A metà marzo il re saudita Abdallah ha ordinato a un corposo contingente di sue truppe di attraversare quella strada per precipitarsi in soccorso del traballante omologo bahreinita. In altri tempi, l’avremmo battezzato “aiuto fraterno”. Di fatto, un’invasione bella e buona, per impedire che in Bahrein il re venisse rovesciato e al suo posto si installasse un regime più o meno democratico e soprattutto affine all’Iran. Una mossa estrema, che dà l’idea del terrore che percorre la Casa di Saud, alla vigilia della successione al trono, che non tarderà molto perché Abdallah è molto anziano e malato.

 

Il ruolo di Israele e degli Stati Uniti

Israele e Washington osservano da vicino le crisi nella Penisola Arabica, perché l’eventuale collasso dell’Arabia Saudita aprirebbe fra l’altro la strada all’egemonia dell’Iran sul Golfo. In effetti, sia israeliani che americani appartengono alla schiera dei perdenti geopolitici dei terremoti arabi. Vediamo.

Gerusalemme era la potenza dello status quo. Non più vitalmente minacciato da alcun vicino arabo, lo Stato ebraico era anzi riuscito ad allearsi di fatto con i regimi arabi sunniti in funzione di contenimento della potenza iraniana. Teheran era e resta l’incubo degli israeliani. E non c’è dubbio che ayatollah e pasdaran stiano festeggiando la caduta di Mubarak e le crisi nella Penisola Arabica, che minano lo schieramento allestito da americani e israeliani contro Teheran. Comunque finisca in Egitto, difficilmente Israele avrà più un amico come Mubarak al Cairo. E se l’onda anomala toccasse anche i territori palestinesi, ricompattandone le molte anime contro la potenza occupante, la sindrome da accerchiamento toccherebbe a Gerusalemme punte parossistiche.

Quanto all’America, continua a oscillare e a rivelarsi impotente. Prima ha esitato a schierarsi contro Mubarak, poi è stata colta di sorpresa dalla guerra libica, annunciando che «Gheddafi se ne deve andare ora». Ma non sembra che il colonnello sia sul punto di ritirarsi in pensione. E quanto alla Penisola Arabica e al Golfo, Obama per ora si limita a incrociare le dita, mentre si prepara agli scenari più infausti senza sapere che cosa davvero desiderare se non il prolungamento dello status quo: ossia di un ordine che sta cedendo.

Infine - ma non ultimo - l’America si trova a confrontarsi con la dimostrata inconsistenza della guerra al terrorismo. Se c’è una lezione chiara e univoca delle rivolte arabe, è che i jihadisti sono ai margini di quel mondo in ebollizione. Contano poco o nulla. Eppure da dieci anni gli Stati Uniti combattono una guerra - la più lunga della loro storia - contro il feticcio di al-Qaida. Una guerra che non possono vincere e che ne sta stremando le risorse militari, morali ed economiche. Eppure, da questo meccanismo nemmeno Obama sa come uscire.

 

La difficoltà dell’Unione europea

E noi europei? Tanto per cambiare, confermiamo di essere divisi e di non contare quasi nulla. In particolare, gli europei del Nord sono lontani non solo fisicamente dal mondo mediterraneo. L’Italia ha un bel lamentarsi di essere lasciata sola a fronteggiare le emergenze, alcune delle quali (emigrazione di massa via Canale di Sicilia verso di noi) piuttosto esagerate per questioni di politichetta nostrana. Vista da Parigi o da Berlino, la nostra penisola serve da carta assorbente per frenare l’avanzata dei flussi di instabilità provenienti da sud.

Tunisia ed Egitto hanno colto di sorpresa tutti, a cominciare da noi europei. Ma la rivolta contro Gheddafi è stata forse il rivelatore massimo della nostra confusione e della nostra impotenza. Europea e occidentale. La guerra di Libia ci dice infatti molto di noi. Soprattutto, di come in Occidente continuiamo a vedere i fatti d’Oriente - specie del mondo islamico - con gli occhi del desiderio. L’analisi è figlia della nostra volontà o dei nostri riflessi condizionati. Sicché finiamo spesso per compiere o non compiere azioni non sulla base di una strategia derivata da una valutazione delle realtà sul terreno, ma su quello che amiamo raccontarci.

Vediamo dunque il caso libico. Qui regnava indisturbato, fino alla fine di febbraio, un dittatore megalomane ma scaltro, Muammar Gheddafi, a capo di una coalizione di tribù tenute insieme con la paura, il ricatto e la rendita petrolifera. Il tutto condito da un’ideologia socialisteggiante, capace di sedurre alcuni severi intellettuali britannici, americani o francesi. Il territorio sotto il controllo gheddafiano equivaleva a più di 40 volte la Svizzera, con più o meno lo stesso numero di abitanti (le stime demografiche, in Africa e non solo, sono alquanto spannometriche). Sotto la terra, riserve inesplorate di petrolio e gas di dimensioni cospicue, probabilmente il triplo di quanto finora scoperto, che già fanno della Libia un rispettabile produttore di greggio (circa il 2% del totale mondiale).

Contro le previsioni di quasi tutti, l’incendio geopolitico scoppiato in dicembre al confine orientale della Libia (Tunisia) e poi diffusosi a gennaio nel corpo del grande vicino occidentale (Egitto), tocca a febbraio anche i possedimenti di Gheddafi. In particolare, le tribù della Cirenaica, tradizionalmente ostili al leader di Tripoli, decidono di sollevarsi e cacciano le forze del Colonnello da Bengasi e da quasi tutta la Libia orientale. La rivolta si estende poi a parti della Tripolitania, tanto che ai primi di marzo il regime sembra sull’orlo del collasso. Molti pronosticano la resa di Gheddafi e l’arrivo trionfale dei ribelli a Tripoli.

Poi il vento gira e assistiamo alla controffensiva delle truppe di Gheddafi, sostenute da mercenari d’ogni risma. Con altrettanta rapidità, alcuni strateghi nostrani pronosticano la prossima vittoria di colui che sembrava votato alla sconfitta. E segnalano la netta superiorità militare del regime sui ribelli, male armati, peggio addestrati e tutt’altro che uniti. La caduta di Bengasi sembra imminente.

In attesa di stabilire chi avrà avuto ragione, alcune note critiche. Innanzitutto, non solo il pubblico, ma anche i decisori sono schiavi dei media. In particolare delle tv arabe, come al Jazeera e al Arabiya, che dispongono di accessi privilegiati al terreno. Ma più che informare, parteggiano. Ci presentano i ribelli di Cirenaica quasi fossero un’appendice dei ragazzi di Piazza Tahrir. Ora, non c’è bisogno di aderire alla propaganda del regime gheddafiano per rendersi conto delle differenze fra la rivolta libica e quella egiziana.

Nel secondo caso, nasce da un vasto moto non violento di popolo e di giovani, armati di Internet e dei suoi derivati, in una delle principali metropoli del mondo. E’ una ribellione di parte della società civile egiziana. In Cirenaica, come altrove in Libia, non c’è società civile. C’è pochissimo Internet. Soprattutto non c’è Stato. Gheddafi ne ha distrutto scientificamente ogni rara traccia per costruire un modello di governo adatto alla sua personalità e alla rete dei poteri informali da lui più o meno controllati. A chi volesse farsi un’idea dei rapporti di potere in Libia, consigliamo di riprendere in mano le carte tribali disegnate dai nostri avi all’epoca della nostra dominazione coloniale: ci dicono molto della realtà libica attuale.

 

Le enormi diversità fra Egitto e Libia

Pur attribuendo ai ribelli di Cirenaica intenzioni liberali e democratiche - ipotesi piuttosto generosa - e pur trascurando le cellule islamiste che sono incistate sul territorio, chiunque voglia ragionare in modo non ideologico si rende conto delle enormi diversità fra Egitto e Libia. Non molti di noi occidentali, a quanto pare. Fatto è che se un giorno dovessero prevalere i ribelli - scenario quanto meno improbabile - lo Stato andrebbe costruito da zero. Impresa quasi impossibile, quanto meno in tempi politici e non storici. Mentre, se dovesse vincere Gheddafi, assisteremmo a una vendetta sanguinosa sul nemico.

Se restiamo al concreto, mandare soldati americani e di altri Paesi a combattere in Libia significherebbe schierarsi con i ribelli, portarli a Tripoli sulla canna dei nostri fucili e poi inventarsi un leader che salvi le apparenze. Nella sostanza: avremmo posto le premesse della ricolonizzazione della Libia. Peccato che nessuno di noi, in Occidente, abbia voglia di imbarcarsi in un’operazione così costosa e rischiosa. Il che non esclude che possa accadere, magari in un non molto prossimo futuro.

Non sapendo che fare, ma volendo dimostrare di volere e potere fare qualcosa, si è deciso di mettere un dito nell’ingranaggio della guerra - con la decisione della no fly zone prima e gli attacchi missilistici e aerei successivamente - senza renderci conto che così si rischia di finire presto anche sul terreno. «Generali, fate qualcosa!» è il primo riflesso dei politici americani, talvolta anche europei, in scenari del genere. Ma, in assenza di una strategia, il fare qualcosa finisce per azionare un meccanismo semiautomatico al cui termine restano due opzioni: tornare indietro con la coda fra le gambe o restare in Libia, in una situazione probabilmente instabile se non di guerriglia, per un tempo indefinito. Da pseudo padroni coloniali.

A scatenare la “logica” del “fare qualcosa” è la pressione dei media. I quali tendono per vocazione a spararla grossa e a raccontare ciò che presumono piaccia ai loro lettori/spettatori. Nel caso libico come in altri scenari - Balcani, Iraq, Afghanistan - ne deriva una pittura in bianco e nero. Confortante nella sua semplicità: buoni contro cattivi, anzi Bene contro Male assoluto. Il tutto condito dalla disinformazione delle parti in lotta, che hanno interesse non a far conoscere i fatti, ma la propria versione della guerra in corso.

Chi più degli altri è caduto in questa trappola è Sarkozy. Il presidente francese, scottato dal precedente tunisino, quando fu colto totalmente di sorpresa dalla caduta dell’amico Ben Ali, si è posto malamente e tardivamente a capo dello schieramento interventista contro Gheddafi. Con esiti anche patetici. Tanto da arrivare a minacciare, prima ancora della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, l’uso unilaterale della forza contro il dittatore di Tripoli. Ne è seguita un’indecorosa ritirata, che rivela la distanza fra la retorica pubblica e i fatti concreti - non solo nel caso francese, ma in tutto l’Occidente. Evidentemente a Parigi non ci si riesce ancora a emancipare dalla mentalità neocoloniale, o semplicemente si tende a presentare di sé un’immagine enfatica. La classica “tigre di carta”, avrebbe stabilito Mao. La speranza è che in Francia e in tutta Europa, al più presto, si attivi un contro-meccanismo basato sulla sobrietà, sulla fredda valutazione delle forze in campo, sulla coscienza degli effettivi interessi nazionali. Purché, dopo il via libera all’operazione Odyssey Dawn e i bombardamenti attuati dalla “Coalizione dei volenterosi”, non sia già troppo tardi.

 

La scommessa di Cina e India

Infine, se allarghiamo lo sguardo, scopriamo che fra i provvisori vincitori dei moti arabi parrebbe corretto annoverare cinesi e indiani. Potenze asiatiche emergenti, ormai importanti anche nel Mediterraneo. Gheddafi ha minacciato di punire gli europei, specie noi italiani, assegnando alcune concessioni petrolifere, attualmente affidate alle aziende occidentali, a cinesi, indiani, russi e altri attori geograficamente lontani ma assai interessati alle sue ricchezze di petrolio e gas.

Comunque finisca, alla fine scopriremo che il Mediterraneo, scansato e temuto dall’Europa, sarà un mare sempre più asiatico. Come gran parte delle terre d’Africa.