Oskar Lafontaine - Proprietà e società: di chi è cosa e perché?

alternative per il socialismo n. 14 novembre 2010-gennaio 2011
 

 


 

 

Nel 1913 l’autorevole storico Charles Beard fu autore di un’opera che fece scalpore. La sua analisi portava alla conclusione che la Costituzione americana riflettesse gli interessi economici di chi l’aveva scritta. Perché Beard era giunto a questa conclusione? Troviamo una risposta a questo quesito già in Goethe, e anche in Marx ed Engels. Nel suo Faust, Goethe dice che «Quel che chiamate spirito dei tempi è in sostanza lo spirito dei signori nel quale i tempi si rispecchiano». Marx ed Engels scrivono a loro volta ne L’Ideologia tedesca: «Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è il potere materiale dominante della società è allo stesso tempo il suo potere spirituale dominante».

Se ci chiediamo perché solo di rado si riescano a superare clichés e pregiudizi, dobbiamo allora sempre pensare al fatto che il linguaggio, anch’esso sempre espressione dello Zeitgeist, dello spirito dei tempi, forgia la nostra percezione. Cosí, per tutti noi, è difficile sfuggire al mondo dei concetti che ci viene trasmesso. Adorno e Horkeiheimer lo spiegano ne La dialettica dell’Illuminismo: «È parte di una condizione irrimediabile che anche il riformatore più sincero che raccomandi, con linguaggio usurato, l’innovazione, rafforza, attraverso l’assunzione dell’apparato categorico già tracciato e della cattiva filosofia che c’è dietro, il potere dell’esistente che, in realtà, vorrebbe spezzare». Riportato all’oggi si direbbe che il politico come riformatore del mercato finanziario rafforza il potere degli speculatori se questi si serve del loro linguaggio e dei loro concetti usurati.

 

Cambiare dalle fondamenta l’ordine economico

Il problema dei testi costituzionali delle democrazie parlamentari consiste nel fatto che i concetti in essi utilizzati non vengono definiti. Questo vale soprattutto per il concetto di proprietà.

Che cosa è la proprietà? Nella costituzione della Repubblica federale tedesca, per esempio, non si trovano risposte concrete a questo quesito. Ma al paragrafo 950 del Codice civile tedesco si legge: «Chi, attraverso il trattamento o la trasformazione di una o più sostanze, produce una nuova entità mobile, acquisisce la proprietà della nuova entità». Se i tedeschi prendessero sul serio le disposizioni del codice civile, dovrebbero cambiare dalle fondamenta il loro ordine economico.

Mai nessuno come l’illuminista Rousseau ha posto in evidenza l’importanza della proprietà per la società borghese: «Colui, che per primo ha recintato un pezzo di terra, l’ha chiamato proprietà e ha trovato delle persone che gli hanno creduto, è stato il fondatore dell’ordine sociale. Costui ha tante guerre e la morte di milioni di persone sulla coscienza. Costui ha violato questo elementare diritto umano: e cioè che la terra non è di nessuno, i frutti sono invece di tutti». Rousseau non ha lasciato dubbi su come porvi rimedio: «I diritti umani devono essere integrati con delle disposizioni che limitino la proprietà. Altrimenti quelli esistono solo per i ricchi, gli intriganti e gli usurai di borsa». Non è questa, una frase di sorprendente attualità?

Ora, molti Stati operano interventi nella proprietà, attraverso le imposte, l’esproprio per esigenze di ampliamento delle infrastrutture o attraverso sovvenzioni. Ma perché, nonostante queste possibilità d’intervento, la distribuzione dei patrimoni si fa sempre più iniqua? Perché la proprietà, nella nostra società, in molti casi non viene attribuita a coloro che ne hanno giuridicamente diritto?

La concezione di proprietà su cui si basa il paragrafo 950 del Codice civile non è assolutamente nuova: già Wilhelm von Humboldt scriveva: «L’essere umano non già ritiene suo quello che possiede, ma quello che fa e l’operaio che coltiva un giardino ne è forse in senso più vero il proprietario rispetto a colui che, beandosene ozioso, ne gode i piaceri».

E, quasi impossibile a credersi, anche il presidente americano Abraham Lincoln diceva già nel 1847: «La maggior parte delle cose belle sono nate attraverso il lavoro, da cui dovrebbe venire di diritto che queste cose sono di chi le ha prodotte. Ma in tutte le epoche si è verificato che c’è chi ha lavorato e chi no, e sono questi ultimi a goderne la maggior parte dei frutti. Questo è sbagliato e non gli si dovrebbe dar seguito».

 

Il problema del privilegio per pochi

In tutte le società l’iniqua distribuzione di proprietà è diventata un problema, in modo particolare quando queste si erano formate sulla cultura ebraico-cristiana. Di fronte a Dio tutti gli esseri umani sono uguali e questo deve riflettersi nel modo di convivere degli esseri umani. Per questo - e lo si può leggere già nel Vecchio Testamento - Israele ha ideato l’anno sabbatico. Dopo un certo numero di anni, in Israele, si dovevano rimettere i debiti ai debitori e si procedeva, tramite lotteria, a una nuova distribuzione delle terre per ristabilire una situazione di parità. Di conseguenza, le persone potevano rimettersi in gioco. Ma, dopo alcuni anni, chi si era impoverito, tornava ad acquisire ciò che prima aveva perduto a vantaggio dei ricchi. Questo esempio dimostra la profonda motivazione dei principi di uguaglianza, libertà e fratellanza concepiti come unità unica. Fintanto che il nostro ordine economico immanente al sistema genera una crescente iniquità, non vi saranno né libertà né fratellanza e, in definitiva, neanche pace.

La proprietà privata era ed è considerata garanzia di una società libera e garanzia di libertà individuale. In quest’ottica la proprietà privata genera progresso economico, stimola l’iniziativa privata, rafforza la responsabilità individuale e garantisce lo sviluppo dell’individuo. Ma questo tipo di responsabilità individuale continua ad avere un neo: e cioé che rimane privilegio per pochi da cui la maggioranza viene esclusa. In una società in cui la stragrande maggioranza di persone non possiede né patrimoni né mezzi di produzione, non si possono legittimare i privilegi di cui gode una minoranza di possidenti, riconoscendo loro un’utilità sociale, con la scusa che essi contribuiscono allo sviluppo della personalità e garantiscono la libertà.

Agli albori della teoria sociale liberale questa concezione della proprietà poteva avere ancora senso. La proprietà privata, liberata dai precetti dell’autorità di stato e da quelli tradizionali o religiosi, era uno strumento di progresso economico, il seme dell’abbattimento dell’ordine feudale e della nascita della libertà politica civile. Per i padri del liberalismo la proprietà privata era legittima in quanto portatrice di questo tipo di utilità per la società nel suo insieme. Ma, allo stato attuale, questi criteri di legittimità sono alquanto dubbi e sono stati messi fuori causa dalla storia. Se la proprietà privata in economia, anche se non ampiamente diffusa, fosse davvero garante di libertà individuale in una società libera, non ci sarebbe stata la Germania nazista.

Infatti, una parte dei grandi industriali tedeschi contribuì all’ascesa al potere di Hitler, per assicurarsi i privilegi, concessi dallo Stato nazista, derivanti dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. In Germania l’iniqua distribuzione della proprietà privata è stata all’origine, durante il nazismo, dello smantellamento delle libertà. Lo stesso si è verificato e continua a verificarsi in tutto il mondo in molte dittature militari.

Secondo la teoria liberale, la proprietà privata in economia traeva legittimità dall’utilità sociale che essa generava. Si può far riferimento anche oggi alla teoria liberale per giustificare una re-distribuzione della proprietà di patrimoni e di patrimoni produttivi. Così come la re-distribuzione ha costituito il seme dell’abbattimento dell’ordine feudale e della nascita della libertà borghese, allo stesso modo una più equa distribuzione della proprietà costituisce il seme dell’abbattimento dell’assolutismo economico e della creazione di una società democratica.

 

Il capitalismo finanziario spirale della diseguaglianza

La partecipazione delle maestranze alle aziende in cui lavorano apre la strada a una società più libera e più democratica. In proposito, il liberale tedesco Karl-Hermann Flach lo ha espresso nella maniera più esplicita: «Oggi vediamo con molta più chiarezza che la proprietà privata di mezzi di produzione e la libertà di mercato portano a una sempre maggiore disuguaglianza che limita in modo insopportabile la libertà dei più nei confronti della libertà di gruppi circoscritti. Il concentramento di patrimoni negli stati industriali occidentali, anche in presenza di crescenti standard di vita e di sicurezza sociale per le masse di salariati, porta ad una disparità che priva di fondamento la giustificazione dei rapporti di proprietà con il concetto di libertà individuale». Così si esprimeva, trent’anni fa, un dirigente liberale. «Il problema del capitalismo - sosteneva ancora Flach - non consiste nel fatto che le imprese acquisiscano profitti, bensì nel fatto che il reinvestimento, continuamente necessario, del grosso dei profitti, non solo crea impianti di produzione moderni e posti di lavoro, ma anche una continua riproduzione di patrimoni nelle mani dei proprietari originari dei mezzi di produzione». Pertanto, sempre secondo Flach, il capitalismo, la supposta logica conseguenza del liberalismo, grava invece su di esso come un’ipoteca. Flach riteneva ancora che, «la liberazione del liberalismo dalla sua appartenenza di classe e con questo dal capitalismo, costituisce quindi il presupposto per la sua sopravvivenza».

Nell’attuale capitalismo finanziario il grosso dei profitti non viene più reinvestito in moderni impianti di produzione, ma piuttosto sperperato nei giochi d’azzardo della speculazione mondiale con conseguenze disastrose per le persone, soprattutto per chi in questo mondo soffre la fame e le malattie. Il capitalismo finanziario espropria le lavoratrici e i lavoratori, non solo trattenendo gli incrementi del patrimonio produttivo, ma anche inasprendo anno dopo anno le disuguaglianze sociali già esistenti e le ingiustizie, tramite tagli ai salari, alle pensioni e alle prestazioni sociali, a fronte di aumenti di prezzi a scopo speculativo.

 

Un nuovo ordine di proprietà per una vera democrazia

C’è bisogno di un nuovo contratto sociale con una diversa distribuzione del patrimonio e della proprietà dei mezzi di produzione. La continua espropriazione a scapito delle lavoratrici e dei lavoratori, ormai diventata la prassi in economia, minaccia la libertà e la democrazia e genera comportamenti irresponsabili nei confronti del patrimonio delle imprese.

Dato che le lavoratrici e i lavoratori si fanno carico dei rischi maggiori, impegnando il loro posto di lavoro e quindi la loro stessa esistenza, sarebbero in grado di gestire il capitale d’impresa in modo più responsabile degli azionisti che in passato lo hanno sperperato con speculazioni sconsiderate. E di esempi, davvero, non ne mancano. Un ordine economico basato sulla partecipazione delle maestranze alle imprese si rivela utile anche a preservare l’ambiente. Una vera responsabilità sociale e solidale puó nascere solo attraverso il loro lavoro, sempre che le lavoratrici e i lavoratori non vengano privati dei propri diritti e delle proprie responsabilità. Il lavoro produttivo è la trasformazione della natura in beni di consumo. Chi, nel processo lavorativo, viene espropriato di qualsiasi responsabilità, non riconoscerà, né nei confronti dell’oggetto del suo lavoro, né della natura, la necessaria responsabilità. Per questo, quanti sostengono un rapporto responsabile tra persone e natura dovrebbero impegnarsi per una responsabilità solidale nel processo lavorativo. Non servirebbe a molto, se si riuscisse qua e là a chiudere una centrale nucleare o una fabbrica chimica, e altrove si continuasse a produrre in maniera irresponsabile e a distruggere la natura esattamente come prima. Detto questo, ne consegue che c’è bisogno di un altro e nuovo ordine di proprietà, se si vuole costruire una società davvero democratica.

 

(traduzione dal tedesco di Paola Giaculli)