Emir Sader - I colori anti-liberisti della nuova talpa latinoamericana alternative per il socialismo n. 1 - maggio-giugno 2007
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Marx si è caratterizzato tra l’altro come un grande scopritore di segnali. Captare il movimento della realtà vuol dire, infatti, decifrare l’itinerario delle contraddizioni. Lenin seppe captare proprio quell’itinerario attraverso l’identificazione del punto debole del dominio dell’imperialismo. La qual cosa gli permise di accorgersi delle condizioni favorevoli a una rottura rivoluzionaria nella Russia arretrata, senza però abbandonare l’idea centrale di Marx secondo la quale lo sviluppo diseguale avrebbe dovuto combinarsi attraverso la relazione tra le condizioni esplosive della periferia e la maturazione delle condizioni materiali per la costruzione di una società che avrebbe superato quelle stesse contraddizioni. Questa attenzione si spostò presto verso la Germania e l’insuccesso dei tentativi rivoluzionari in quel paese condizionò probabilmente, in maniera quasi irreversibile, anche l’insuccesso del socialismo nel XX secolo, spostando la prospettiva del socialismo ogni volta di più verso le periferie, certo più esplosive in termini di contraddizioni senza però avere le condizioni necessarie per la costruzione del socialismo. È difficile seguire da quel momento in poi l’andamento della vecchia talpa… Cina, Vietnam, Cuba, Cile, Nicaragua? Dopo l’enigma difficilmente decifrabile della Cina, l’America Latina ha iniziato a caratterizzarsi come un continente di rivoluzioni e controrivoluzioni. Luoghi distanti come l’Avana, Santiago del Cile, Managua sono entrati a far parte delle agende della sinistra internazionale. Repentinamente questi nomi sono cambiati di segno e hanno iniziato a diventare punti di riferimento delle campagne di solidarietà. Dittature, terrore e massacri sembravano però richiudere il destino del continente per molto tempo. Ma i cicli delle sconfitte si sono rivelati più corti di quello che si temeva. Tre anni dalla morte di Ernesto Che Guevara e dalla fine del primo ciclo guerrigliero (1967) fino al governo di Salvador Allende (1970). Sei o tre anni dal golpe militare di Augusto Pinochet e la dittatura uruguaiana (1973) e quella argentina (1976) e poi dal trionfo sandinista in Nicaragua. Nove o otto anni dalla fine dei paesi a “socialismo reale” e l’inizio del “periodo speciale” a Cuba (1989, 1991), dalla fine del regime sandinista (1990) all’elezione di Hugo Chávez in Venezuela (1998).
L’illusione degli anni Novanta Considerate le dimensioni delle sconfitte e le proporzioni delle trasformazioni regressive - morte del Che e di Allende, insuccesso sandinista, ma anche nei casi più recenti dell’imposizione dell’egemonia neoliberale - è impressionante la capacità di recupero del movimento popolare latinoamericano. Pur perdendo partiti (quelli socialdemocratici) e forze (i nazionalismi come il “peronismo” e il Partito rivoluzionario istituzionale messicano, Pri) e soffrendo dure offensive repressive, ideologiche, sociali (disoccupazione, precarietà del lavoro, frammentazione sociale, indebolimento dei sindacati), la sinistra latinoamericana, che è la talpa, riappare in superficie in modo imprevisto per coloro che non credono nel lavoro sotterraneo delle contraddizioni che continuano a essere senza dubbio il motore della storia. Quel quasi mezzo secolo trascorso dalla rivoluzione cubana (1959) è composto da una grande successione di cicli ascendenti e discendenti (dal 1957 al 1967, dal 1967 al 1970, dal 1973 al 1979, dal 1989 al 1988, dal 1998 al …) che dimostrano ogni volta la rinnovata capacità di accumulo di forze da parte dei movimenti della sinistra latinoamericana, così come la durezza dei colpi repressivi che sono stati lanciati contro di essi e la capacità di quest’ultimi di riprendere l’iniziativa. Caracas, Cochabamba, Quito, Buenos Aires, Chiapas, Oaxaca: si vanno sommando i nomi legati a gesta rivoluzionarie che entrano a far parte del calendario della sinistra. L’America Latina risorge come un continente di rivoluzioni, e quindi di controrivoluzioni. L’America Latina è stata il laboratorio delle esperienze neoliberali e neoliberiste. Il neoliberismo è nato in Cile con Pinochet, in Bolivia con Victor Paz Estensoro, l’ex leader nazionalista della rivoluzione del 1952 prima di tornare al nuovo modello egemonico del capitalismo mondiale proposto da Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Praticamente tutti i paesi latinoamericani sono stati vittime di questo modello (fa eccezione Cuba), tanto è stata la sua generalizzazione patrocinata dall’estrema destra, dalla destra tradizionale, dalle forze nazionaliste e dai partiti socialdemocratici. Allo stesso modo con il quale, agli inizi del decennio Settanta, l’ex presidente statunitense disse “Siamo tutti keynesiani”, quasi tutti i presidenti latinoamericani avrebbero potuto dire, agli inizi degli anni Novanta: “Siamo tutti neoliberisti”. Ma molto presto il nuovo modello ha iniziato a dare segnali di esaurimento e la vecchia talpa non è rimasta nel sottosuolo per molto tempo. Nello stesso momento in cui entrava in vigore il Trattato di libero commercio dell’America del Nord firmato da Stati Uniti, Canada e Messico (1 gennaio 1994) si è udito “l’urlo del Chiapas” con la prima grande ribellione antiliberista. In quello stesso anno la crisi messicana preannunciava quello che avrebbero rappresentato il lungo ciclo delle crisi finanziarie prodotte dalle modalità speculative di accumulazione in tutto il mondo. Le crisi messicana (1994), brasiliana (1999) e argentina (2001) facevano crollare, nelle tre grandi economie del continente, le aspettative sugli esiti promessi da Washington e dal “pensiero unico”. I movimenti sociali sono stati protagonisti di grandi lotte di resistenza rispetto ai governi neoliberisti: sia nel caso di Carlos Menem (Argentina) come in quelli di Fernando Enrique Cardoso (Brasile), Salina de Gortari (Messico), Sanchez de Losada (Bolivia) e Alberto Fujimori (Perù). Movimenti come quello degli zapatisti, dei “senza terra”, degli indigeni boliviani ed ecuadoriani, dei “piqueteros” argentini si sono proiettati sulla scena come espressioni concrete di questa lotta di resistenza, rappresentando milioni di altre voci delle vittime delle controriforme liberiste. Non c’è voluto poi molto perché queste mobilitazioni passassero da costituire una forza sociale a diventare una vera e propria forza politica.
Una “terza strategia” al lavoro L’abbandono del campo della sinistra da parte della grande maggioranza dei partiti tradizionali, così come il grande consenso che avevano acquisito i programmi neoliberisti dei vari governi, rendevano difficile che la resistenza si trasformasse in alternativa. Questo cammino è stato più significativo in Bolivia e in Ecuador, grazie alla minore forza delle strutture dominanti in questi paesi. In quelle due realtà, i movimenti indigeni hanno saputo trasformare le loro rivendicazioni in temi “nazionali”: terra, acqua, gas, petrolio. E hanno saputo far cadere uno dietro l’altro tre presidenti in Ecuador, un presidente e un vicepresidente in Bolivia, grazie alla perdita di legittimità prodotta dalle grandi mobilitazioni sociali che hanno saputo alternare scioperi della fame, occupazioni di strade e territori a grandi manifestazioni popolari. Dopo la delusione dei movimenti ecuadoriani indotta dall’aver appoggiato un dirigente politico (di origine militare) come Lucio Gutiérrez che rompeva (già prima del suo insediamento) gli impegni assunti con loro, i movimenti boliviani hanno trovato la via di superamento dell’impasse quando il partito che avevano formato - il Mas, Movimento verso il socialismo - è riuscito a eleggere il suo principale dirigente, Evo Morales, come primo presidente della Repubblica di origini indigene. Iniziava così a delinearsi una nuova strategia della sinistra latinoamericana, la “terza strategia” nella storia della sinistra di questo continente. La prima di queste strategie era stata quella della riforma del sistema economico-sociale in ambito istituzionale, che ebbe nel governo di Salvador Allende in Cile la sua espressione più chiara e acuta. Nelle loro diverse forme, i progetti fondati su questa strategia si sono via via esauriti, sconfitti dalle loro stesse riforme o dai golpe militari. La seconda strategia è stata “la guerra di guerriglia” diffusasi soprattutto a partire dalla rivoluzione cubana (1959). Tre cicli guerriglieri si sono sviluppati in più di dieci paesi con movimenti rurali e urbani. I rapporti di forza militari nel mondo unipolare seguito al 1989 - che per esempio indussero le guerriglie di El Salvador e Guatemala a riciclarsi nella lotta politica istituzionale - hanno bloccato le possibilità di ulteriore sviluppo dei movimenti guerriglieri. L’impasse che da questo punto di vista si registra in Colombia lo dimostra. La terza strategia ha iniziato a sorgere proprio con l’avanzata e con le sconfitte della resistenza al neoliberismo, riuscendo ad avere in Venezuela, Bolivia ed Ecuador le sue realtà più significative (almeno fino a questo momento). Caratterizzata dall’assenza o dalla sconfitta delle forze tradizionali della sinistra - partiti, sindacati, leader - sono stati i movimenti sociali a grande partecipazione di popoli indigeni e di forze militari nazionaliste a ricoprire il ruolo di avanguardie sociali e ideologiche della nuova ondata popolare. Quello che hanno in comune Venezuela, Ecuador e Bolivia non sono solo gli obiettivi radicalmente antiliberisti e anti-imperialisti ma anche il progetto di nuove e alternative forme di governo. Dopo il trionfo elettorale delle forze popolari, queste stesse forze - in tutti e tre i paesi - si sono proposte di rifondare lo Stato attraverso inedite Assemblee costituenti con ampia partecipazione democratica, accompagnate da nuove forme di potere dal basso in nome del riscatto della sovranità nazionale e dell’integrazione latinoamericana. Nel caso del Venezuela, il nazionalismo ha una radice militare. Nei casi di Ecuador e Bolivia, invece, quelle radici sono indigene. Ma tutte e tre queste esperienze confluiscono nel medesimo progetto di integrazione latinoamericana. Si è venuta così costruendo una terza strategia per la sinistra in America Latina che assume e supera quelle precedenti. Assume della strategia insurrezionali sta l’idea della distruzione dello Stato attuale per sostituirlo con un’organizzazione statale dai caratteri popolari, democratici e di difesa delle ricchezze naturali nazionali. Mentre dalla strategia istituzionale assume la capacità di dare uno sbocco politico e istituzionale alle rivolte popolari. In questo modo, tale terza strategia cerca di evitare i due tradizionali vicoli senza uscita della tradizione della sinistra latinoamericana. Il primo è quello dei governi - vedi i casi di Brasile, Argentina e Uruguay - che assumono una certa continuità con la struttura dello Stato così come la ereditano (apparato costoso e inefficiente, debiti accumulati, incapacità di darsi delle priorità strategiche) e rischiano di conseguenza di farsi imbrigliare nelle maglie degli apparati burocratici che condizionano la loro azione. L’altro vicolo cieco è l’accumulo di forze attraverso grandi mobilitazioni sociali - in alcuni casi pure della cosiddetta “società civile” - che però non hanno poi la forza di trasformare questa spinta in capacità e forza politica capace di lanciare la sfida per conquistare l’egemonia nella società. Ci sono molti casi di questo tipo, pur con le loro peculiarità: dal Chiapas ai “piqueteros” argentini, dalla rivolta nella città messicana di Oaxaca fino al movimento che ha denunciato i brogli nelle ultime elezioni presidenziali in Messico e al movimento dei “senza terra” in Brasile. Si sta così disegnando, proprio con questa terza strategia, allo stesso modo che nel secolo scorso, un nuovo grande secolo per l’America Latina. Se quello passato era iniziato con il massacro degli operai nel porto di Santa Maria de Iquique nel Nord del Cile e con la rivoluzione messicana, il nuovo secolo si è aperto con le rivoluzioni di Venezuela, Bolivia, Ecuador che si sommano a quella di Cuba e ai processi di integrazione regionale che si stanno sviluppando nella parte meridionale del continente costituendo l’alternativa al progetto di unificazione di un’area di libero mercato (l’Alca) auspicata da Washington. Un’altra volta ancora in America Latina la vecchia talpa riappare in superficie con tutti i colori dei popoli, delle etnie, delle culture, delle classi per tanto tempo soggiogate, escluse, dominate, sfruttate e umiliate. La rivoluzione rinasce nell’America Latina del XXI secolo con il volto di Evo Morales.
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