La crisi del sindacalismo confederale e la nuova sfida della Fiom Articolo di Fausto Bertinotti pubblicato sul numero 27 di Essere Comunisti - marzo 2012
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La Fiom sta provando ad evitare che il sindacato industriale diventi un fenomeno da consegnare agli studi storici. Il rischio è tutt’altro che remoto. Nell’Europa che l’aveva visto nascere e affermarsi si sta svolgendo la crisi del sindacalismo confederale. E’ una crisi dura e profonda, covata a lungo; una crisi che potremmo definire strutturale perché alimentata, a sua volta, da un processo sociale e politico di proporzioni storiche, quello della crisi che ne costituisce il fondamento, la crisi della contrattazione sindacale. La scena economico-sociale in cui essa si manifesta è quella del capitalismo finanziario globalizzato e della crisi che lo ha investito. La scena politica che su queste viene allestita è quella delle crisi della democrazia, della politica classica e della sinistra. Essa è disegnata dalla produzione di un processo costituente senza popolo e senza costituzione governato da un’oligarchia che ne ha preso la guida per conto di una borghesia internazionalizzata. L’obiettivo che questa nuova classe dirigente si è posto, prima in modo dissimulato, ora persino apertamente dichiarato, è di mettere fine allo stato sociale europeo. Questo stato sociale, pur già così compromesso, è considerato dagli stati maggiori del capitalismo europeo un impedimento alla ricostruzione di una forte capacità competitiva del sistema. Lo ha, per esempio, dichiarato con inusuale franchezza un suo assai autorevole esponente, un esponente dalla eleganza intellettuale di Mario Draghi. In Italia il perno dell’intero stato sociale è stata la contrattazione sindacale. Ed è contro quest’ultima che si è levato dalla borghesia il truce grido della curva: “Devi morire”. In Italia la borghesia industriale internazionalizzata si è messa all’opera per perseguire questo obiettivo, sulla scia del modello d’impresa proclamato dalla Fiat di Marchionne. La concertazione, dopo aver consumato una progressiva perdita di autonomia da parte del sindacato confederale e la sua tendenziale mutazione in un’articolazione istituzionale dello stato sociale, è abbattuta ora da destra dal governo Monti. La sostituisce un opaco confronto tra il governo e le parti sociali nel quale il governo tiene per sé la parte di decisore in ultima istanza. Si compie così la parabola calviniana del sindacato confederale, da Barone rampante (la contrattazione in materia sociale ed economica tra sindacato e governo degli anni Settanta) a Visconte dimezzato (la concertazione degli anni Novanta), a Cavaliere inesistente (il potere negoziale del sindacato di oggi nei confronti del governo). L’idea di mettere fine alla storia del sindacalismo confederale, quale soggetto politico di contrattazione, è molto organica alla natura del capitalismo finanziario globalizzato in Europa. Nel rilancio in grande stile del tentativo di ridurre il lavoro a merce, riportando nel mercato ciò che la storia del conflitto di classe gli aveva in parte sottratto, sia direttamente con il contratto che indirettamente con lo stato sociale, c’è tutta la rinnovata grande ambizione del capitalismo (nella crisi) di farsi totalizzante. La proclamazione dello stato di eccezione ha dettato le condizioni politico-istituzionali nelle quali quel tentativo può svilupparsi concretamente. Dopo l’agosto del golpe bianco che ha sospeso la democrazia in Europa, non solo, com’era prevedibile, non si è affatto usciti da quel “regime di eccezione”, ma anzi esso si è sviluppato dando vita a una sorta di neo-bonapartismo finanziario. Tanto più la crisi economica si approfondisce e crescono i pericoli di recessione, contemporaneamente alla destabilizzazione dei bilanci statali in diversi Paesi europei, tanto più la democrazia rappresentativa e la sovranità popolare vengono sistematicamente sostituite da un decisore privo di una qualsiasi legittimazione democratica. La triade Fmi, Bce, Commissione europea, supportata dall’asse franco-tedesco, è il nuovo Console dell’Europa neo-autoritaria. Il “podestà straniero” di ogni Paese europeo è stabilmente in sella. Il governo di ciascun Paese ne è il proconsole. I parlamenti, come le intendenze, seguono. In essi le opposizioni tendono ad essere associate agli esecutivi in governi, di fatto, più o meno, di grande coalizione. Le prove di questi assetti invocati dalle classi dirigenti avvengono nei modi più diversi, ma lungo la stessa ispirazione. L’attacco, ormai sistematico, portato contro lo stato sociale e contro il salario, è l’espressione di una politica economica che li individua quali questioni capitali per l’accumulazione capitalistica in questo ciclo di crisi e di ristrutturazione, le quali, a loro volta, inducono le imprese ad un’assolutizzazione della competitività dentro un determinato modello economico, considerato immodificabile. In Italia questa aggressione sta realizzando il disfacimento della Repubblica fondata sul lavoro. Altri hanno parlato di fine della “società salariale”. Ma che rapporto c’è tra i due fenomeni così descritti e dove ci porta questo processo? La società salariale, se così possiamo chiamarla, è stata connotata dallo sfruttamento e dall’alienazione del lavoro salariato, ma, contemporaneamente, da ciò che la lotta di classe ha conquistato proprio a partire dalla rivendicazione di qualità e quantità del lavoro (l’aumento del salario quale fondamentale richiesta di giustizia sociale, la domanda di eguaglianza iscritta nella formula a parità di lavoro parità di salario, il salario per tutti attraverso la piena occupazione, la tutela sociale dalla culla alla tomba). La crescita di una vocazione universalistica, connessa alla conquista dei diritti della persona che lavora, ha creato lo stato sociale per tutte e per tutti (o almeno ci ha provato a pretenderlo). Ora la lotta di classe rovesciata, quella condotta dalle classi proprietarie contro i lavoratori, si propone, se vogliamo usare la formula della società salariale, di cancellare la socialità e di lasciare solo il salario come inanimata variabile dipendente dell’accumulazione capitalistica. Il nostro futuro dovrebbe essere (a proposito degli innovatori che scoprono le virtù del mercato e della concorrenza) il ritorno a prima del movimento operaio. Ogni critica dell’economia politica dovrebbe essere bandita. Né la Costituzione, né la legge, dovrebbero più prendere in considerazione quell’eccedenza di civiltà presente nel rapporto di lavoro mercantile che è la dignità della persona umana, i suoi diritti inalienabili. La contrattazione sindacale dovrebbe essere fondata sulla negazione di qualsiasi autonomia dei lavoratori e del sindacato dal mercato e dall’impresa e, perciò, sulla negazione del carattere progressivo del conflitto sociale e della democrazia dei soggetti direttamente interessati. La pressione è così estremistica, la volontà di fare tabula rasa dei diritti sociali è così forte, che la costruzione di questo recinto subisce, a volte, delle crepe sul versante sindacale, tanto che, in più di un caso nazionale, il sindacato confederale è indotto a riprendere la via dello sciopero, senza tuttavia che, in generale, né nel sindacato, né tanto meno in gran parte della sinistra politica, si apra una riflessione su quella loro ricollocazione di fondo che sarebbe necessaria per riaprire la contesa. Così, malgrado importanti chiamate allo sciopero generale in alcuni paesi europei, il processo continua a macinare risultati inquietanti, a scapito dei diritti dei lavoratori e delle loro condizioni salariali, di lavoro e di vita. A volte, come è accaduto da noi, neanche lo sciopero generale, per le modalità con cui è stato convocato e per l’assenza di obiettivi davvero mobilitanti, si sottrae a quel sistema di relazioni che finisce con il negare ogni autonomia al sindacato. Nel sindacalismo confederale fuori da questo schema sta la Fiom che costituisce perciò un’anomalia vitale e che, proprio perciò, vive una sfida grande e difficile al cui esito, non sembri paradossale, sono in larga parte legate le sorti e la rinascita dello stesso sindacalismo confederale. Il sindacalismo confederale e l’unità sindacale sono state le leve decisive nella costruzione negli anni Sessanta e Settanta di ciò che è stato chiamato il caso (progressivo) italiano, caso fondato sulla rottura del precedente e duro squilibrio di classe. Se la domanda è su che cosa il caso italiano è stato fondato, la risposta mi pare semplice: primo, sulla nascita (tormentata ma reale) di un regime di democrazia dei lavoratori quale fondamento dell’unità stessa dei lavoratori e dei sindacati e, secondo, su un patto (tacito ma forte) tra lavoratori e sindacati per cui i secondi si impegnavano a guidare la loro azione contrattuale al fine di migliorare le condizioni di lavoro, di vita e di potere dei lavoratori e questi concorrevano a rafforzare il potere e il ruolo del sindacato. La crisi, il declino e la divisone sindacale ha origine, al contrario, nella rottura di quel patto e nell’abbandono da parte del sindacato confederale del terreno decisivo della democrazia dei lavoratori. Al loro posto, trainati dalla nuova CISL, il convoglio sindacale ha scambiato l’accettazione di una contrattazione adattativa, nella quale si è affermato il paradigma unico della produttività – competitività dell’impresa, con il suo riconoscimento istituzionale. Questo modello ha come alternativa, nel sindacalismo confederale, quello della Fiom. Bisognerà riflettere ancora su quali siano le radici di questa originalità. Esse infatti sono molto profonde e ramificate. Vengono da lontano, dalla nuova collocazione della Fiom, con la CGIL, dopo la svolta sindacale seguita alla sconfitta alla Fiat della metà degli anni Cinquanta, si fanno forti con l’ingresso, sulla scena del neocapitalismo, dell’operaio comune di serie e con l’inchiesta sindacale che promuove la contrattazione articolata, passa anche, attraverso percorsi accidentati e battute d’arresto, alla Fiom di Trentin nel FLM dei consigli, viene ritrovato nella difficile metà degli anni Ottanta dalla svolta di Claudio Sabattini, e poi è resistenza sociale al neoliberismo, pratica contrattuale, parte dei movimenti fino a Genova e oltre. Oggi questo sindacato ci prova ancora. La sua controparte, il padrone più importante che si trova di fronte, è quella che cancella il contratto nazionale di lavoro, che discrimina il sindacato che non accetta il dettato aziendale, che reprime il conflitto e opprime i lavoratori. Parole antiche come dignità della persona che lavora, democrazia, rappresentanza sociale e conflitto vorrebbero essere cancellate in un modello d’impresa che nega la soggettività delle lavoratrici e dei lavoratori per configurare una produzione come macchina da guerra lanciata, per altro non proprio efficace, lanciata contro altre imprese. La sinistra istituzionale pensa che sia una parentesi, così come pensa drammaticamente che lo sia il governo tecnocratico dell’Europa e dell’Italia. Invece è l’apertura della grande contesa del tempo della globalizzazione capitalistica e delle sue crisi. La Fiom lo sa e si comporta di conseguenza. E’, insieme, la tradizione del sindacato industriale, del sindacato confederale di classe, senza memoria del quale non c’è futuro per il sindacato, e l’innovazione, a partire da quella che scopre nell’incontro e nel dialogo nei movimenti. Se uno ha chiaro da dove viene il sindacato industriale, sa quanto sforzo di innovazione, di elaborazione, di conquista culturale c’è, solo per fare un esempio, nell’assunzione dell’obiettivo del salario sociale e, insieme, nel tenere aperta la questione imprescindibile della piena e buona occupazione. La Fiom adesso va allo sciopero generale, da sola, nel sindacato confederale, ma con tutte le porte e le finestre aperte, anche a quell’aria che abbiamo chiamato rivolta. Lo fa per riconquistare la democrazia e far riemergere una lettura di classe di quest’Europa, invece, post-democratica. Questa del resto è la nuova frontiera del sindacato se vuol tornare ad essere soggetto politico, cioè soggetto della trasformazione. Ma tutta la storia della Fiom ci insegna che per diventarlo davvero è il conflitto di lavoro, è il contratto che devono poter essere i luoghi primi della politicizzazione. E’ su questi terreni, oggi così difficili, che vive o muore la politica, quella che ci interessa. Bisognerebbe saper dare una mano a chi, così coraggiosamente, ci sta provando a farla esistere.
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