Populismi inquinanti: le promesse tradite della modernità

   di Fausto Bertinotti

 

   Alfabeta n. 17 - marzo 2012

 

Coloro che hanno un atteggiamento critico nei confronti della società nella quale siamo immersi (cioè quelli per i quali può valere l’antica formula “siamo uomini in questo mondo, non di questo mondo") hanno l’obbligo di essere assai sorvegliati nel far ricorso, di questi tempi, all’uso della categoria politica del populismo. Viviamo un tempo nel quale il capitalismo attuale è tanto forte nel determinare le scelte di governo dell’economia e della società, quanto è nell’impossibilità di costruire il consenso attorno ad esse. Questo apparente paradosso è all’origine della tendenza in atto in Europa a dar vita a sistemi politici post-democratici, a sistemi di fatto oligarchici, governati dai sacerdoti dell’ultima ortodossia, quella della presunta ineluttabilità delle scelte comandate dai mercati.

Le élites tendono allora a chiamare populista la più parte delle manifestazioni di protesta, di rivolta, di ribellione, di collera, così da destituirle di ogni significato politico e da negarne ogni soggettività politica al fine di poter evitare di fare i conti con le concrete contestazioni del carattere naturale, oggettivo delle scelte di governo. Ma l’esigenza critica di evitare di prendere lucciole per lanterne non deve impedire di leggere i segni di un possibile e inquietante emergere di un nuovo populismo di destra. Al contrario, bisognerebbe aguzzare la vista, non rifiutare di leggerne i possibili annunci, bensì leggerli diversamente dal passato. Il dispiegarsi della crisi in Europa e l’avvento in essa della grande controriforma covano duri rancori nel profondo della società, nelle sue pieghe meno illuminate dai riflettori delle comunicazioni, dove già sono state spezzate tante relazioni e, in particolare, quelle tra la vita e la politica. Sono le connessioni tra le pulsioni dal basso e alcuni determinati orientamenti culturali dall’alto che possono dar luogo a quel processo politico. E’ lì, in quella linea d’ombra, che va indagato ciò che cova di un futuro minaccioso. Alla base c’è un risentimento sociale duro e diffuso che nella realtà trova solo ragioni di conferma, ulteriori pezze d’appoggio. Dall’alto sono piovuti tutti i possibili elementi inquinanti. Del resto, da sinistra, siamo soliti denunciare gli oscuri depositi della destra, quanto in questi lunghi anni è stato da loro disseminato di razzistico, di xenofobo, di canagliesca avversione al diverso come all’emarginato e, in fondo, al povero. Uno scandalo etico e culturale reiterato, ostentato: la musica di accompagnamento all’inno alla diseguaglianza, quale motore dello sviluppo. Tutto vero, ma resta così senza risposta la domanda sul perché quel risentimento e quella rabbia possono incontrare quella inseminazione minacciosa, piuttosto che organizzarsi secondo la tradizione del movimento operaio o piuttosto prendere la via della rivolta, degli indignati. Va sottolineato che la minaccia che si intravede non è tanto quella dell’adesione di massa alle tesi della destra politica, quanto quella dell’incontro tra risentimenti sociali e alcuni di quei depositi. Di chi e di che cosa allora stiamo parlando? Credo proprio di ciò che potrebbe fare la differenza, configurando un nuovo populismo di destra e di massa. E’ il rischio del baratro che l’Europa tecnocratica e neoautoritaria può spalancarsi di fronte con le sue proprie mani. Non si tratterebbe solo dell’estensione di ciò che già conosciamo, che pure dà conto di fenomeni allarmanti. Sul terreno della rappresentanza politico-istituzionale si può pensare al successo del Front National di Marine Le Pen per quanto essa si rivela capace di calamitare un consenso trasversale proprio negli storici insediamenti popolari. Nella società civile, in molti paesi europei, come anche in Italia, si esprime una costellazione di esperienze e di organizzazioni che segnalano possibili fuoriuscite dalle loro nicchie, dagli ultimi inquietanti processi politici nelle curve degli stadi alle molteplici iniziative che marcano il rifiuto della convivenza tra diversi e eguali e che fanno della prevaricazione nei confronti dell’altro il tratto distintivo di quella pratica sociale. Su un altro ed estremo terreno, le orribili manifestazioni di aggressione violenta, fino al perseguimento della strage, di campi rom, come le violenze contro degli immigrati, tengono accesa la lampada mortifera del capro espiatorio, che ispira anche propensioni meno tragicamente evidenti ma certo assai pericolose perché più diffuse. Fenomeni diversi, eppure parte di una costellazione che avvelena il terreno, sebbene non ancora configurabile come il nuovo populismo di destra. Persino la Lega, che in Italia, è l’espressione politica più prossima a dar voce al populismo di destra, ne è una manifestazione datata, quella della risposta della piccola patria chiusa e arroccata alla destrutturazione prodotta dalla globalizzazione, una risposta capace di cogliere uno smottamento di una parte del popolo della sinistra di fronte alla drammatica crisi di quest’ultima, ma non di andare oltre, di oltrepassarla. Ma ora interviene il cambio di passo del sistema, Ora le grandi realtà sociali sono esposte ad un devastante terremoto, senza eguali nella storia del lungo dopoguerra seguito alla vittoria contro il nazifascismo. Ora la povertà ritorna dove la lotta di classe l’aveva cacciata. Ora la disoccupazione diventa spesso una condanna sociale irreversibile. Ora la precarietà diventa per i più giovani la divisa stessa della vita. Ora la diseguaglianza offende e scarica disprezzo sulla politica che non l’ha contrastata. Il risentimento e la rabbia pervadono di sé i ceti popolari. Non si tratta solo del risentimento dettato dalla condizione sociale, che pure è la lente che fa leggere l’ingiustizia in termini così brucianti. Essi sono anche il portato di una percezione di fondo, culturale, politica e umana. La percezione del tradimento delle promesse; della promessa della democrazia, della politica (della sinistra) e della cultura (degli intellettuali). Norberto Bobbio, fin dal 1985, osservava come “una delle promesse non mantenute dalla democrazia” fosse “proprio il fatto che la democrazia politica non si è estesa alla società e non si è trasformata in democrazia sociale”. Stava già lì l’origine del suo attuale scacco, della sua sostituzione con regimi oligarchici. La promessa della politica della sinistra con l’avvento del movimento operaio si era fatta molto alta; essa si chiamava giustizia. La sconfitta del Novecento ha aperto la strada al colpevole tradimento della promessa, non solo rispetto a quello minimo della riformistica lotta contro le ineguaglianze, per limitarne le peggiori conseguenze sociali. Infine, la cultura, nella modernità, con l’opzione dell’impegno, ha suggerito la possibilità di realizzare quella ‘connessione sentimentale’ tra intellettuali e popolo che Gramsci considerava necessaria agli stessi fini della conoscenza. Un’altra promessa tradita. E’ nata così la solitudine politica e culturale degli operai di oggi come quella della nuova popolazione lavorativa già sottoposta alla spoliazione dai processi socio-economici del capitalismo finanziario globalizzato. Perciò paura e rabbia possono avere più di un esito politico. Cova su questo territorio accidentato, quello dei ceti popolari esposti al rischio sociale e all’impoverimento, dunque, anche il possibile esito del formarsi di una nuova specie del populismo di destra. Esso potrebbe, diversamente dal passato, nascere dal basso, con una fenomenologia non così dissimile da quella dei nuovi movimenti anticapitalistici. L’eredità del populismo storico fungerebbe da betoniera; in essa entrerebbero dei materiali in senso lato di sinistra (la denuncia dell’intollerabilità della propria condizione sociale e dell’accanimento del sistema contro gli strati popolari), ma ne uscirebbe una miscela di destra. Di destra in primo luogo perché prigioniera dell’impotenza a cambiare gli assetti della società e del potere; poi perché mutilata dalla perdita di una precisa nozione di avversario e, infine, per il dissolvimento di una critica di classe delle relazioni sociali esistenti. All’eclisse della coscienza di classe quale fondamento della politica della sinistra e, in essa, l’oscuramento del conflitto tra la borghesia e il proletariato, si è venuto aggiungendo, in Europa, sul tema del governo, la perdita, da parte della sinistra istituzionale, del suo carattere di alternativa alla destra e al centro. Così resta pressoché solo il conflitto tra il basso e l’alto della società. Ma esso può diventare una prigione che alimenta il disagio sociale, la frustrazione di ogni aspettativa, il senso di solitudine. Diventerebbe allora possibile che la giustizia scivoli nel giustizialismo e che la rabbia venga canalizzata nella ricerca del capro espiatorio, come già ci spiegava Paul Ricoeur. Per tutte queste ragioni, quelle che attengono alle cause del fenomeno (possibile) e alle sue potenziali caratteristiche e non per qualche tardiva concessione allo spontaneismo, l’unico antidoto forte, al nuovo populismo di destra, è quello stesso che può far rinascere la democrazia, la politica e la sinistra; è l’aria di rivolta che circola dai paesi del Nord Africa a Wall Street, attraversando diversi paesi europei e alla quale gli indignati hanno dato il loro nome. Aria di rivolta che nasce sul suo stesso terreno, quello segnato dallo svuotamento della democrazia e dall’eutanasia della sinistra, perciò essa può prosciugare l’acqua in cui potrebbe, al contrario, nuotare il nuovo populismo di destra. Può farlo, se saprà crescere, espandersi e costituirsi in una coalizione capace di fare società. Un’impresa tutt’altro che facile. In quel “Noi 99%, voi 1%” c’è, però, iscritta una possibilità. Certo, quest’aria di rivolta sarebbe aiutata da una ripresa, nelle culture critiche e nelle pratiche sociali, del tema, tanto dimesso quanto irrinviabile, della trasformazione. E sarebbe aiutato dalla ripresa di un lavoro politico per la resurrezione dell’unica sinistra plausibile, quella dell’eguaglianza. “Vaste programme”, direbbe De Gaulle.